Ovviamente parliamo di cibo e, quando parliamo di spreco alimentare, intendiamo quella parte di beni che vengono acquistati ma non consumati e che poi finiscono nella spazzatura.
Equesto “buttare nella spazzatura” risale la catena agroalimentare e si riflette su tutte le fasi: quella produttiva, quella distributiva e, infine, il consumo. Con il cibo sprecato vengono, infatti, gettate via anche risorse come acqua, fertilizzanti, suolo, combustibili fossili e fonti energetiche di ogni tipo, a cui si somma poi lo spreco economico e quello in termini di lavoro e risorse umane.
Un problema a livello globale perché, secondo i dati della FAO, le cifre nazionali sullo spreco sono molto elevate: ben 1/3 di ciò che si produce (un miliardo di tonnellate) non arriva a tavola, che tradotto in cifre parliamo di 15 miliardi di euro. Ed è proprio alla fine della catena del cibo, nella fase di consumo sia domestico che ristorativo, che avvengono gli sprechi più consistenti dovuti a cattive abitudini di spesa, date di scadenza troppo rigide, inosservanza delle indicazioni in etichetta sulla corretta conservazione degli alimenti, promozioni che spingono i consumatori a comprare più cibo del necessario, tendenza a servire porzioni di cibo magari troppo abbondanti o ordinare troppo al ristorante guidati dalla gola piuttosto che dalla fame effettiva.
Dai dati dell’anno 2023 emersi dall’osservatorio Waste Watcher - che per la giornata contro lo spreco alimentare (5 febbraio) presenta ogni anno il proprio report - gettiamo in media 524,1 grammi pro capite a settimana, ovvero circa 75 grammi di cibo al giorno e 27,253 kg annui: che per fortuna risultano essere il 12% in meno rispetto alla medesima indagine del 2022 (595,3 grammi settimanali). Un dato che si accentua a sud (+ 8% di spreco rispetto alla media nazionale) e per le famiglie senza figli (+ 38% rispetto alla media italiana).