Il linguaggio del cibo

Victoire Gouloubi: la cucina della conoscenza

Ancora troppe le barriere che separano l’uomo dall’essere umano. Ancora troppo si pensa solo a sé non considerando l’altrui persona. Tutto il mondo è paese e tutti noi siamo – o dovremmo essere – una grande comunità, abbattere distanze e infondate paure. Il concetto di “diversità” è un problema reale, tangibile, che necessita di essere sradicato.
Victoire Gouloubi, chef pluripremiata di origini congolesi, lotta ogni giorno per tutto questo, con una sola arma: il cibo. A detta sua, infatti, “il cibo è l’unico comune denominatore per la pace” e, in effetti, non ferisce, non offende, ma include e unisce. La chef, fiera donna nera, propone un’alta cucina africana, che parla della sua terra e del suo paese adottivo, l’Italia; racconta di sé, del razzismo e dell’inclusione, del giusto e di una “battaglia” che si può combattere con il gusto. Le parole di Victoire sono forti, leggerle a tratti fa male ma fanno anche pensare.
È proprio questo che bisognerebbe fare: soffermarsi a riflettere e interiorizzare.
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Victoire, raccontami la tua cucina: quanto è difficile trovare un connubio tra sapori africani e mediterranei?
 
La mia cucina racconta la mia storia professionale ma anche di vita, che sono legate. Sono stata adottata dall’Italia ma provengo da un continente che è la culla del mondo. Racconta il mio passato e la mia identità da donna africana, ma anche la donna e la professionista che sono diventata in Italia oggi.
Riguardo al “quanto è difficile coniugare”, innanzitutto, bisogna parlare di “cucine africane” e non di “cucina africana”. L’Africa è un continente enorme, che in sé ingloba – solo in termini di superficie – l’intero continente europeo e quello americano. È uno dei più grandi al mondo e si parla di “cucine” perché ovviamente ci sono Paesi diversi. Se dicessi a un italiano: “com’è la cucina europea?”, mi risponderebbe che “l’italiana è la migliore”. Ognuno si identifica nel suo paese, le sue origini e radici. Le cucine africane sono molteplici, svariate e diverse da nord a sud, da est a ovest. Quindi, coniugare le nostre cucine, specialmente la mia, con il territorio occidentale, italiano, è difficile. L’Italia ha ancora molte difficoltà nell’avere uno scambio alla pari sulle identità gastronomiche afrocaraibiche. Io vengo dall’Africa centrale, paese attraversato dall’equatore, i prodotti sono tipicamente estivi e tropici, difficili da trovare e quindi, noi chef afrocaraibici, adattiamo in qualche modo alcune nostre ricette con prodotti delle stesse famiglie che troviamo qui in Italia. Per esempio, la melanzana, che ha molte varietà: in Africa ci sono le melanzane nane, alcune rosse, altre gialle e ognuna di esse, per quanto melanzana, ha un sapore e una maturazione diversi. Quindi sì, è difficile, ma non impossibile.
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Perché le cucine africane, rispetto a tutte le altre, sono in qualche modo bistrattate?
 
Penso che siano stigmatizzate. Bisogna partire dall’inizio. Se l’essere umano africano non è accettato, come può esserlo la sua cucina? Quest’ultima è la nostra identità: quando vediamo l’italiano, non lo riconosciamo solo per come parla e si veste ma anche per come sta a tavola. È una persona golosa, ama la tradizione, la famiglia, la buona compagnia e la pizza che è conosciuta nel mondo perché l’italiano l’ha promossa.
Lo stesso succede con le persone afrocaraibiche. Se vengono continuamente stigmatizzate, viste come quelle che creano problemi, come può esserci un’apertura da parte dell’Italia per conoscerne le culture, il cibo? Se non c’è approccio verso la conoscenza, la curiosità di capire cosa c’è dall’altra parte del mondo, non si conosceranno mai le altre innumerevoli ricchezze delle culture afrocaraibiche. Questo è il problema.
Ma bisognerebbe partire dalle basi, cioè, proprio dalle scuole. Come si insegna ai bambini che esistono le ferie estive e si può andare al mare, bisogna insegnare che esistono altri continenti, in cui ci sono paesi, in cui esistono delle persone che hanno molte culture. I principi della cultura sono la moda, l’arte, la musica e il cibo. Questo è il primo denominatore comune della pace, nonché primo linguaggio che l’essere umano usa per comunicare. Quando la mamma mette al mondo un bimbo, non ha bisogno di dirgli: “vieni a mangiare”; lo attacca al seno e lo nutre. Il bambino riconosce quel gesto dal linguaggio del cibo. È l’unico elemento più potente al mondo grazie al quale le persone non hanno la necessità di scambiarsi parole, sanno che basta scambiarsi il piatto per comunicare.
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A proposito di cultura, cosa vuole esprimere e comunicare la tua cucina?

Comunica me. Non è megalomania ma penso di rappresentare molte donne, molti uomini della mia stessa identità e origine. Racconto prima di tutto la nostra meravigliosa terra: l’Africa, terra di tutti noi, perché è lì che l’essere umano è nato. Si racconta sempre dell’uomo bianco, caucasico, che ha viaggiato nel mondo e “scoperto”, come Colombo con l’America. Ma è la stessa persona – l’essere umano occidentale – che si pone dei limiti nella conoscenza altrui. Scopre, però non vuole conoscere. Va a prendere con forza ma non vuole restituire ciò che ha rubato. La mia cucina comunica tutte queste battaglie, la gioia di essere diventata chef in Italia, perché è qui che mi sono formata e sono diventata una professionista. Ho viaggiato per il mondo per continuare a imparare, perché non si smette mai. Racconto la bellezza di aver creato una nuova vita, perché sono una sopravvissuta. Vengo da un Paese che era stato lacerato da due guerre, dopo il genocidio del Ruanda, che è uno dei più grossi del mondo ma non se ne parla. Si parla solo della Shoah, mai del Ruanda. Tutto ciò che succede in Africa viene messo sotto il tappeto, la gente non deve vedere. Quello che succede “di qua” invece, è notizia per il mondo intero. Io voglio raccontare quello. L’Africa non è ciò che si vede in tv: plasmata come povera, pietosa. La mia cucina, in sintesi, racconta le bellezze dell’Africa e dell’Italia.

Parlami di Uma Ulafi e del premio dedicato a Diego Schiappone, un ragazzo che amava i grani antichi d’Africa.

Uma Ulafi (“forchetta golosa”) è il salone internazionale della scoperta delle culture gastronomiche africane. Ho ideato questo concept perché ho notato che noi che siamo una “minoranza”, non veniamo promossi a dovere. Quelli che lo sono vengono usati come esempi per dire: “noi non siamo razzisti”. Uma Ulafi vuole promuovere la gastronomia afro in Italia ma anche nel mondo. Serve per dire che noi ci siamo sempre stati. “Uma” in lingua swahili significa forchetta e la forchetta da pasticceria fu inventata da una donna nera schiava nel 1891. Se andiamo a vedere cosa hanno creato gli Africani, i neri nel mondo, gli Italiani non trovano posto. Con questo non voglio creare alcuna divisione, è una realtà. Per questa edizione speciale ho ideato il premio in onore di Diego, questo ragazzo che amiamo tanto e che, purtroppo, è mancato lo scorso settembre: era molto giovane, aveva 26 anni. Io non l’ho mai conosciuto di persona, è stato un rapporto virtuale con una persona che aveva un amore folle per l’Africa, ci ha vissuto. Mentre era lì, si è innamorato dei grani antichi africani, delle farine d’Africa e, rientrato in Italia con i genitori, il suo sogno era poter aiutare le donne che lavoravano le terre e producevano farine. Lo ha fatto in silenzio. Oggi ci sono i trattori ma in Africa la più grossa raccolta viene fatta a mano, soprattutto da donne, con gran fatica. Quando Diego aprì la sua pizzeria, molti colleghi pizzaioli lo prendevano in giro per il fatto che usasse farine africane: “Siamo Italiani, abbiamo creato la pizza, dovresti lavorare le nostre farine, tu usi queste, ma chi li conosce?”, dicevano. Oggi si sono sviluppate moltissime intolleranze, specialmente al glutine, anche nei bambini. C’è inquinamento, si usano pesticidi. In Africa abbiamo delle terre ancora vergini. Il 40% dello spazio non utilizzato è rappresentato da essa. È una grande potenza avere la fortuna di poter promuovere questi grani. Quelli antichi oggi li chiamano “super food”, li hanno scoperti adesso ma noi li abbiamo sempre avuti, ci siamo cresciuti. Abbiamo farine estratte dal tubero che può vivere anche dopo l’uomo, non ha bisogno di acqua, resiste a 40°C sotto al sole, è spontaneo.
Come si dice: la terra vive senza l’uomo, l’uomo senza la terra no. Diego in silenzio aiutava quelle donne e la battaglia che sto facendo è promuovere tutti gli attori che ruotano intorno al mondo enogastronomico africano.
La seconda edizione di Uma Ulafi è dedicata proprio alla celebrazione della terra. Quale miglior modo di celebrare quelle donne se non rendendo omaggio a Diego?
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Quando sei arrivata in Italia, come hai superato sessismo e razzismo che hai vissuto e che probabilmente stai ancora vivendo?
 
Penso che i pregiudizi e le battaglie legate al sessismo, le persone non le superano davvero. Si cerca di dire: “non è un mio problema”, ma esiste. Io non so se l’ho realmente superato. Ciò che ho sempre fatto è combattere con le giuste armi. Il problema non sono mai stata io, non ho scelto di essere una donna e nascere nera ma se potessi farlo, lo sceglierei altre mille volte, in altre mille vite. Sono felice di essere una donna, felice di essere una nera per cui, chi vede in me un problema, è lui stesso il problema. Le persone che combattono con problemi inesistenti si pongono da sé dei muri, come a Berlino. Loro che creano problemi devono trovare soluzioni ma, se non li creassero, allora non dovrebbero cercarle. Penso che per superare le battaglie che viviamo non sia necessario solo focalizzarsi su un obiettivo ma sensibilizzare. Perché facendolo, rieducando chi ci fa questa guerra, qualcuno finirebbe per ascoltare e cambiare.
 
Come definiresti la libertà?
 
Ognuno di noi ha la propria ma penso che la mia per me sia la possibilità di esprimermi, di vivere, di fare tutto a mio piacere senza dare fastidio all’altro.

Una volta hai definito la brigata “un branco”: in che senso?

L’essere umano in società vive in branco, siamo animali, la sfida nasce laddove le persone creano dei ghetti.
Quando ho iniziato io, 23 anni fa, erano animaleschi. Un “capobranco” che non ha né testa né coda, magari nemmeno 5 anni di studio, pensa di operare con forza per avere un buon risultato. Io credo sia ancora così, comunque. Tant’è che la ristorazione sta soffrendo la mancanza del personale e non è una cosa dovuta solo al Covid ma soprattutto al problema della comunicazione, del comportamento nelle cucine. È fondamentale che gli chef facciano un percorso per capire le necessità dei loro subordinati.
 
C’è un piatto o un ingrediente che ritieni simbolo?
 
Non ho un piatto che mi rappresenta. All’inizio potevo parlare delle mie creazioni, oggi mi identifico anche nei prodotti. Essere uno chef completo significa promuovere ingredienti. Nella mia cucina sono fondamentali alcuni elementi come il burro di karité, il tubero di manioca, il fonio (definito come un super-cereale gluten free, ndr) o le spezie… e, attenzione, parlare di “spezie” non significa necessariamente parlare di piccante. Dopotutto, anche il sale è una spezia e in Italia non si usa sempre?

Parlando di etica e inclusione, come vedi la ristorazione del futuro?
 
È una domanda complessa. Sinceramente non lo so, anche se mi piacerebbe avere questa risposta.
Credo si debba prendere la vita come viene, le cose sono in continuo cambiamento. Chi avrebbe potuto immaginare quanto sarebbero cambiati i rapporti tra le persone dopo il Covid? Più social, meno rapporto umano, distanze ecc. Sono certa che con l’evoluzione cambierà molto ma lo scopriremo insieme.
 
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di Noemi Caracciolo

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