Napulè è mille culture

“Napule è mille culure, Napule è mille paure”. Questa associazione di idee regalataci da Pino Daniele esprime, con disarmante lucidità, le luci e le ombre di una città che, più che un luogo, è uno stato dell’anima, un manuale di storia, una infinita ricerca sul campo.
 
A tale proposito, Marino Niola, antropologo della contemporaneità e docente presso l’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, ha ben stigmatizzato la doppia anima della città in un’intervista rilasciata a Gianni Cerasuolo in occasione del terzo scudetto del Napoli: “Napoli è tutte e due le cose. Perché i napoletani sono epicurei e ritengono che ciascuno abbia una sorta di diritto alla gioia, nei limiti del possibile ovviamente. Non hanno nessuna paura nel mostrare i loro sentimenti, anche la gioia, e nel lasciarsi andare all’esplosione che abbiamo visto in questi giorni”.

Sarà per questo epicureismo latente che la città ha dato vita, nel corso della propria storia, a tanti prodotti di eccellenza gastronomica, tra cui ovviamente la pizza.
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Le tre pizze di Napoli
Il legame tra Napoli e la pizza – non ce ne vogliano gli altri – è storia nota. Negli scavi di Pompei e in quelli dell’antica Neapolis (V secolo a.C.) sono stati trovati forni che hanno la stessa forma di quelli che ancora oggi vengono costruiti dai maestri fornai partenopei seguendo una tecnica ritenuta indispensabile per cuocere la pizza secondo la tradizione napoletana. E, sempre a Pompei, ha fatto scalpore qualche anno fa il rinvenimento di un affresco in cui, tra varie pietanze, sembrava scorgersi proprio una pizza ma che era, in realtà, una mensa, ossia un piatto su cui si poggiavano le pietanze, fatto di acqua e farina e cotto in forno, non destinato a uso alimentare. Questi esempi non intendono dire che la pizza fosse già nota al tempo dei Romani o che – viceversa – qualcosa di simile fosse presente solo a Napoli ma significa piuttosto che in questo fazzoletto di terra esistevano già duemila anni fa i prodromi di un percorso che avrebbe fatto nascere secoli dopo questo amatissimo cibo. Il motivo per cui proprio Napoli sia stata la città eletta per questo “miracolo” è che – come hanno ricostruito Antonio e Donatella Mattozzi – vi si trovava qui una serie di fattori che sicuramente hanno contribuito alla diffusione del prodotto: l’ambiente naturale, la situazione sociale, la pressione demografica, la povertà, la storia stessa della città. Ecco, dunque: non una novità assoluta ma una sapiente rilettura di qualcosa già noto al mondo. Questa è la pizza, questa la sua forza. La riflessione dei Mattozzi consta nel fatto che Napoli è stata per secoli la capitale di un importante regno che, dal 1503, entrò nell’orbita della corona di Spagna con l’insediamento del viceré.
Per stringere un rapporto diretto con il signore, i feudatari si trasferirono in buona parte nella capitale, portando al seguito un gran numero di servi e dipendenti, cui si aggiunse una massa di contadini che, dalle miserie delle campagne, si stabilirono in una città dove era loro assicurata, per volontà del re, la distribuzione di pane a prezzo controllato e addirittura, in alcuni periodi dell’anno, gratuito. Napoli, nel XVI secolo, quasi quadruplicò la propria popolazione, passando da 100.000 a 350.000 abitanti in meno di cento anni e diventando, così, la seconda città più popolosa d’Europa, dopo Parigi. Stando a quanto ricostruito dagli storici, probabilmente la pizza deve dire grazie a questa enorme massa di gente, perlopiù povera, priva di un lavoro e di una dimora stabile ma soprattutto affamata. Di focacce o schiacciate, tuttavia, se ne sono sempre fatte nel mondo, al punto che l’abate Ferdinando Galiani, nel suo “Vocabolario”, pubblicato postumo nel 1789, alla voce “pizza” scrive: “È nome generico di tutte le torte, focacce, schiacciate e quindi si aggiunge sempre qualche aggettivo per distinguerle” e, nell’elenco che ne fa, si trovano la pizza fritta, la pizza a lo furno co’ l’arecheta (origano) e la pizza doce (dolce).
 
E la pizza fritta è proprio una ulteriore espressione della napoletanità. Quest’ultima è nata nel dopoguerra dal genio creativo del popolo napoletano, come risposta alla miseria, alla povertà, alla mancanza di forni e alla scarsità di ingredienti. L’impasto della tradizionale pizza, fritto in olio bollente, si gonfiava e dava un maggiore senso di sazietà. Oggi la si trova nella versione “montanara”, condita sulla superficie con pomodoro e basilico (ma anche in molte altre varianti) ma anche farcita con cicoli e ricotta. Nel tempo, la pizza fritta è diventata un tratto distintivo delle pizzaiole donne, grazie alle capostipiti Esterina Sorbillo, antenata di Gino; a donna Adele Lieto o a Concettina ai Tre Santi ma anche grazie a icone della contemporaneità come Maria Cacialli e Isabella De Cham. A renderla celebre, è la scena del film “L’oro di Napoli”, diretto da Vittorio De Sica nel 1954, in cui Sophia Loren, vendendo pizza fritta, grida: “Mangi oggi e paghi fra otto giorni”.
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La “parigina”
Un discorso a parte merita, poi, la “parigina”, un classico impasto di pizza sotto ed una fragrante pasta sfoglia dorata a copertura, il tutto ripieno di pomodoro, prosciutto cotto e mozzarella. Nulla (o quasi), però, questa pizza ha a che fare con Parigi, come si potrebbe pensare, sia per il nome che per la presenza della sfoglia. La nascita di questo prodotto avverrebbe, infatti, agli inizi dell’Ottocento, per opera dello chef Marie Antoine Carême e sarebbe stato un suo anonimo allievo, un monsù alla corte dei Borbone di Napoli, a portare questa novità nel Regno delle Due Sicilie. Amatissima dalla regina Maria Carolina d’Austria, questo prodotto spopolò rapidamente nel Regno e “Parigina” significherebbe proprio “p’a reggina”, ovvero “per la regina”. Si tratterebbe, dunque, della prima dedica di una pizza a una sovrana, ben prima di Margherita di Savoia.

Vincere il provincialismo
Quale futuro, allora, per la “pizza napoletana”? La riflessione con cui chiudo questo articolo è nata a inizio luglio, quando l’Associazione Verace Pizza Napoletana ha celebrato il suo quarantesimo compleanno, una ricorrenza importante che ricorda i decenni trascorsi nella difesa e nella valorizzazione dell’immagine di Napoli nel mondo. In quell’occasione, è emersa forte una riflessione: la necessità di vincere il provincialismo.
E il fatto che a dirlo sia un’associazione che ha fatto dell’identità locale il proprio mantra mi ha indotto molto a riflettere. Una delle peggiori malattie del nostro tempo è, infatti, proprio il provincialismo, che non risparmia neppure il mondo gastronomico. Essere provinciali è cosa ben diversa dall’abitare “in provincia”, ossia fuori dalle metropoli. Essere provinciali vuol dire, in questa accezione, agire in maniera ossessiva verso la difesa della propria posizione, ovunque ci troviamo. Conta poco avere casa a Napoli, a Beirut o a Madrid; contano poco le gite fuoriporta ai quattro angoli del mondo; ciò che conta è quanto riusciamo a “scambiare” in ogni percorso della nostra vita. Ogni anno, questa rivista dedica un intero numero alla pizza napoletana. E lo fa perché ritiene che, al di là di ogni visione che si possa avere in merito al tema “pizza”, il messaggio della “napoletana” sia fermamente ancorato ai temi dell’apertura e della condivisione. A spingermi a dirlo, non è solo la mia nascita, legata a doppio nodo a Partenope bensì le storie che proviamo a raccontarvi in questo numero: le testimonianze delle tavole medievali, le lacrime dell’emigrazione, la “grande pizzeria” di Vincenzo Capuano, il talento “pazzesco” di Antonello Cioffi a Varese, il giubileo d’argento della “Gatta Mangiona” di Roma e, soprattutto (forse), la “Pizzeria dell’Impossibile” di Napoli. Come a dire: se fai la pizza napoletana, o ti apri al mondo o è meglio non farla. Come direbbe Pino Daniele: “Napule è a voce d’e creature ca saglie chiano chiano e tu saje ca nun si sulo”.
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di Antonio Puzzi

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