Le tre pizze di Napoli
Il legame tra Napoli e la pizza – non ce ne vogliano gli altri – è storia nota. Negli scavi di Pompei e in quelli dell’antica Neapolis (V secolo a.C.) sono stati trovati forni che hanno la stessa forma di quelli che ancora oggi vengono costruiti dai maestri fornai partenopei seguendo una tecnica ritenuta indispensabile per cuocere la pizza secondo la tradizione napoletana. E, sempre a Pompei, ha fatto scalpore qualche anno fa il rinvenimento di un affresco in cui, tra varie pietanze, sembrava scorgersi proprio una pizza ma che era, in realtà, una mensa, ossia un piatto su cui si poggiavano le pietanze, fatto di acqua e farina e cotto in forno, non destinato a uso alimentare. Questi esempi non intendono dire che la pizza fosse già nota al tempo dei Romani o che – viceversa – qualcosa di simile fosse presente solo a Napoli ma significa piuttosto che in questo fazzoletto di terra esistevano già duemila anni fa i prodromi di un percorso che avrebbe fatto nascere secoli dopo questo amatissimo cibo. Il motivo per cui proprio Napoli sia stata la città eletta per questo “miracolo” è che – come hanno ricostruito Antonio e Donatella Mattozzi – vi si trovava qui una serie di fattori che sicuramente hanno contribuito alla diffusione del prodotto: l’ambiente naturale, la situazione sociale, la pressione demografica, la povertà, la storia stessa della città. Ecco, dunque: non una novità assoluta ma una sapiente rilettura di qualcosa già noto al mondo. Questa è la pizza, questa la sua forza. La riflessione dei Mattozzi consta nel fatto che Napoli è stata per secoli la capitale di un importante regno che, dal 1503, entrò nell’orbita della corona di Spagna con l’insediamento del viceré.
Per stringere un rapporto diretto con il signore, i feudatari si trasferirono in buona parte nella capitale, portando al seguito un gran numero di servi e dipendenti, cui si aggiunse una massa di contadini che, dalle miserie delle campagne, si stabilirono in una città dove era loro assicurata, per volontà del re, la distribuzione di pane a prezzo controllato e addirittura, in alcuni periodi dell’anno, gratuito. Napoli, nel XVI secolo, quasi quadruplicò la propria popolazione, passando da 100.000 a 350.000 abitanti in meno di cento anni e diventando, così, la seconda città più popolosa d’Europa, dopo Parigi. Stando a quanto ricostruito dagli storici, probabilmente la pizza deve dire grazie a questa enorme massa di gente, perlopiù povera, priva di un lavoro e di una dimora stabile ma soprattutto affamata. Di focacce o schiacciate, tuttavia, se ne sono sempre fatte nel mondo, al punto che l’abate Ferdinando Galiani, nel suo “Vocabolario”, pubblicato postumo nel 1789, alla voce “pizza” scrive: “È nome generico di tutte le torte, focacce, schiacciate e quindi si aggiunge sempre qualche aggettivo per distinguerle” e, nell’elenco che ne fa, si trovano la pizza fritta, la pizza a lo furno co’ l’arecheta (origano) e la pizza doce (dolce).
E la pizza fritta è proprio una ulteriore espressione della napoletanità. Quest’ultima è nata nel dopoguerra dal genio creativo del popolo napoletano, come risposta alla miseria, alla povertà, alla mancanza di forni e alla scarsità di ingredienti. L’impasto della tradizionale pizza, fritto in olio bollente, si gonfiava e dava un maggiore senso di sazietà. Oggi la si trova nella versione “montanara”, condita sulla superficie con pomodoro e basilico (ma anche in molte altre varianti) ma anche farcita con cicoli e ricotta. Nel tempo, la pizza fritta è diventata un tratto distintivo delle pizzaiole donne, grazie alle capostipiti Esterina Sorbillo, antenata di Gino; a donna Adele Lieto o a Concettina ai Tre Santi ma anche grazie a icone della contemporaneità come Maria Cacialli e Isabella De Cham. A renderla celebre, è la scena del film “L’oro di Napoli”, diretto da Vittorio De Sica nel 1954, in cui Sophia Loren, vendendo pizza fritta, grida: “Mangi oggi e paghi fra otto giorni”.