Conservare le biodiversità per alimentarci meglio e con gusto

Per capire cosa sono e che valore hanno le biodiversità agroalimentari andiamo al di là dell’oceano, sulle coste del Pacifico, in un piccolo appezzamento di terra di 40.000 mq, nella Russian River Valley, in California, negli USA, di proprietà del vignaiolo Peter Fanucchi, che produce un vino sconosciuto nel resto del mondo, il Trousseau gris. Anche Peter sa che il 66 per cento del vino prodotto nel mondo è frutto di solo 35 tipologie di uve, come hanno documentato K. Anderson e N. Aryal (Database of Regional, National and Global Winegrape Bearing Areas by Variety, 2000 and 2010), e se in California, che è una delle più celebrate regioni vitivinicole del mondo si producono solo otto vini - Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Merlot, Pinot noir, Sauvignon blanc, Syrah, Zinfandel e Pinot gris, cui s’aggiungono solo i 4 ettari di Trousseau gris di Peter Fanucchi - significa che in quella   regione c’è stata, a partire dalla metà del secolo scorso, una mirata selezione che ha eliminato un gran numero di vitigni, salvandone solo otto.
 
Perché è avvenuto questo? La risposta è semplice: per produrre solo i vini più richiesti dal mercato, abilmente imposti ai consumatori, vini che assicurano buoni guadagni. La storia ci dice che la vitivinicoltura in California è stata introdotta nel 1779 da alcuni missionari spagnoli guidati da padre Junipero Serra, i quali hanno portato dal Messico diversi ceppi lì importati dalla Spagna nel corso del Cinquecento; poi, dal Messico, erano arrivati in Texas e nel New Messico nel corso del Seicento. Già allora e fino alla metà del secolo scorso anche in California c’erano molte più tipologie di uve rispetto alle poche attuali. Non è facile capire perché la ricerca spasmodica del guadagno abbia decisamente prevalso sulla soddisfazione del gusto che il vino regala al consumatore se si presenta nelle sue tantissime varietà. C’è chi afferma che la mentalità protestante – anglicana, luterana, calvinista, ecc. – a differenza di quella cattolica, bada più al business che alle gioie della vita ed è una interpretazione condivisa da molti studiosi. Infatti la notizia relativa alla produzione vitienologica della California mostra, in un settore ben conosciuto da tutti, l’enorme differenza di cultura agroalimentare esistente fra gli USA e l’Europa del Sud: Italia, Francia e Spagna in primo luogo.
 
In Italia, ad esempio, come è ben noto, i vitigni coltivati sono molte decine e ci sono sia vitigni presenti in quasi in tutta la penisola sia vitigni dal nome sconosciuto ai più, coltivati in piccolissime aree. Tanto per intenderci, ricordiamo che i vitigni più diffusi in Italia sono: Sangiovese, Trebbiano (nelle sue diverse famiglie), Catarratto, Montepulciano, Glera (Prosecco), Pinot grigio, Merlot, Chardonnay, Barbera, Negramaro, Primitivo, Nero d’Avola, Cabernet Sauvignon, Moscato (di varie famiglie), Lambrusco (di varie famiglie), Aglianico, ecc., mentre sono limitati a piccolissime produzioni vitigni come Bianchetta, Boschera, Perera, Franconia, Tazzelenghe, ecc. e messi tutti insieme i vitigni coltivati in Italia superano abbondantemente il centinaio.
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L’amore per la biodiversità

A conferma di quanto appena affermato, la giornalista e antropologa alimentare Simram Sethi (Bread Wine Chocolate, 2017), scrive: “In un Walmart (la più grande catena americana di generi alimentari), a Winston-Salem North Carolina, ho contato 153 diversi gusti di gelato e otto marche diverse di yogurt, ma poi ho guardato meglio. La scelta è superficiale – sia per quanto riguarda il gusto sia per le marche, che sono in buona parte di proprietà della stessa azienda. Inoltre più del 90 per cento di tutti gli yogurt e i gelati è stato confezionato con il latte di un’unica razza di mucche, la holstein-friesian (frisona), nota per essere l’animale da latte più produttivo al mondo” (pag. 32). La Sethi estende poi le sue osservazioni per quanto riguarda gli USA, facendo chiaramente intendere che nomi e marchi diversi non significano prodotti diversi, essendo piuttosto specchietti per attirare i consumatori, perché i prodotti sono praticamente i medesimi.
 
Ben diversa la situazione in Italia, dove la diversità delle razze bovine, alcune decine dall’Alto Adige alla Sicilia, permette di avere latti fra loro molto diversi e quindi formaggi diversi, yogurt diversi, gelati diversi e, questi ultimi, diversissimi per la diffusione in Italia di numerosi veri gelatai artigiani, ciascuno con la propria ricerca, la propria arte, il proprio gusto, le proprie varietà. Tenendo conto che nessun Paese è autosufficiente sotto il profilo agroalimentare, si può comunque affermare con certezza che l’Italia, nonostante le massicce invasioni di prodotti agroalimentari esteri, diffusi soprattutto dalle multinazionali, è riuscita a conservare un ricco patrimonio di biodiversità alimentari che continua ad alimentare le cucine locali che, nel loro insieme, costruiscono l’identità della cucina italiana, apprezzata nel mondo proprio perché non standardizzata come vorrebbero i grandi Gruppi multinazionali, di origine statunitense (ma anche svizzera e francese), impegnati da decenni a creare un modello alimentare unico per tutto il mondo, traendo in questo modo enormi incalcolabili profitti.

L’Italia, esempio da imitare

Il piacere della tavola, di cui l’Italia è depositaria – come pure la Francia e la Spagna – e ne va giustamente fiera, nasce soprattutto dalla diversità e varietà dei prodotti impiegati nelle cucine italiane, dal modo di trasformarli, dalla capacità mostrata nel corso dei secoli di assorbire e far propri i prodotti importati – le spezie dal lontano Oriente, lo stoccafisso da oltre il Circolo Polare Artico, il baccalà dalle isole attorno a Terranova, nel Nordest del Canada, il riso ancora dall’Oriente tramite gli Arabi, il mais, il pomodoro, i peperoni, le patate e altri ortaggi dalle Americhe, ecc. - adattandoli alla tradizione e al gusto “storico” della cucina italiana, che è poi il ricco insieme delle tantissime cucine locali. In questo modo si è salvato molto del vasto patrimonio agroalimentare del passato e, anzi, lo si è arricchito, anche se molte varietà – in particolare gli alberi da frutto – sono state quasi totalmente abbandonate e sostituiti da varietà d’importazione più produttive e commercialmente più redditizie (in questo imitando i nordamericani).
 
In questi ultimi anni s’è fortunatamente andata sviluppando, in Italia ma non solo, una coscienza nuova, tesa a difendere, valorizzare e promuovere il patrimonio delle biodiversità che la natura, le importazioni e il lavoro di tante generazioni ha donato al nostro Paese, arricchendo una cucina che resta radicata nella storia e nel territorio, aperta anche a nuovi prodotti, rimanendo nel contempo unica, con la propria ben precisa identità, capace non solo di soddisfare le necessità nutritive, ma anche di soddisfare le esigenze del gusto, regalando quel “piacere della tavola” che è caratteristica fondamentale della cucina italiana. In questo quadro stanno tornando in auge antiche varietà di mele (ad esempio: la “Melannurca” campana, la “Bianca di Grottonella”, la “Mela Uncino” marchigiana, la “Calamana” trevigiana; ecc.), di pere (la “Camusina” sarda, il “Pero da Sidro” friulano, la “Pera Trentatre” dell’Abruzzo, ecc.), di ciliegie (ne abbiamo già scritto nei mesi scorsi) e altri alberi da frutto; si riscoprono varietà di pomodori che si credeva scomparse; ci si impegna a salvaguardare razze bovine ridotte a pochi esemplari, come la Burlina del Grappa (col cui latte si produce il formaggio Morlacco) e in questo benemerito impegno che sta crescendo, in netta controtendenza con i progetti delle multinazionali agroalimentari, sta il valore della cultura alimentare italiana che merita più attenzione essendo un importante valore aggiunto non solo al reddito, ma alla civiltà più vera del nostro Paese.
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di Giampiero Rorato

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