È cattivo, tanto per cominciare, il pane che non si sa quando e dove sia stato confezionato; quello che non si sa con quali farine e con quali modalità sia stato prodotto. Credo sia ormai noto a tutti che dai confini del Nordest d’Italia entra ogni giorno pane surgelato prodotto in qualche Paese dei Balcani, prendendo poi la strada di diversi supermercati o altri negozi o ristoranti italiani dove si vende e si serve pane “fresco” a ogni ora del giorno. E che un tipo di pane siffatto provochi seri dubbi sulla sua qualità è più che comprensibile. È inoltre vero che una delle “filiere impossibili” riguarda la farina, poiché buona parte della farina con cui in Italia viene confezionato il pane arriva dall’estero e il nostro fornaio, se la farina non è prodotta da un mulino del posto con grano prodotto nel territorio non sa in quale parte del mondo sia stato prodotto il grano da cui è ricavata la farina che giunge nel suo forno. Ma non basta perché non sa neppure se si tratta di farina proveniente da una sola varietà di grano o da più varietà o da miscele di grani prodotte in Paesi diversi (Ucraina e USA, ad esempio), come non sa come quel grano sia stato conservato una volta trebbiato, se per conservarlo sono stati impiegati prodotti chimici, come e per quanto tempo ha viaggiato, in nave o negli appositi vagoni dei treni merci.
E veniamo alla farina. È possibile, in particolare nei mesi caldi, che farine risultino infestate dagli insetti (vermi e farfalle). Ciò, diversamente da quello che si può pensare, non è legato alla bassa qualità delle stesse (piuttosto è inversamente proporzionale) ma alle condizioni ambientali avverse (caldo e umidità eccessiva) in cui sono conservate. In qualunque farina (eccetto quelle stabilizzate) sono contenute le uova degli insetti, le quali si schiudono rapidamente non appena si trovano nelle condizioni ideali. Poi il nostro fornaio, anche se lo sa, non sempre è attento al fatto che le farine sono nutrizionalmente migliori quando sono fresche (cioè macinate da non moltissimo tempo), ma non freschissime, avendo bisogno di un’adeguata maturazione (almeno un mese), poiché spesso le usa quando gli servono, senza badare ai tempi di maturazione. La corretta conservazione delle farine, sia nei mulini che nei magazzini dei forni, è pregiudiziale alla qualità del pane, così come sono fondamentali altre caratteristiche delle farine stesse, ben note ai fornai E c’è un altro aspetto che i clienti non conoscono: l’impiego dei cosiddetti “miglioratori della panificazione”.
Questi cosiddetti “miglioratori”, in base alla loro tipologia (ne esistono di tanti tipi), servono essenzialmente ad ottenere un impasto più soffice, ad aumentare la durata del pane, migliorane il sapore, ottenere un’alveolatura più omogenea, ottenere una crosta fragrante e, si badi bene, velocizzare il processo di lievitazione per accorciare i tempi di produzione, con conseguente abbattimento dei costi. In base alla tipologia, gli ingredienti che compongono i cosiddetti miglioratori possono essere soia, frumento, grassi animali e “additivi chimici”, come il propionato di calcio e addirittura “derivati dal petrolio”. L’impiego nei forni di questi prodotti totalmente estranei alla serie ed onesta tecnica di panificazione – per la quale servono solo farina, acqua, lievito e sale – fa male alla salute e rende cattivo il pane. Oggi, purtroppo, nel pane che esce da certi forni o che arriva dall’estero c’è dentro di tutto: un po’ di grasso frazionato, agenti anti-micotici, fosfati, solfati, per non parlare del bromato di potassio, potenzialmente cancerogeno. E per cuocerlo si arriva ad usare anche legna verniciata, copertoni e chiodi, come è stato più volte denunciato (in internet la documentazione è abbondante). Ce n’è a sufficienza per capire come si possa trovare sul mercato del pane veramente “cattivo” e pericoloso per la nostra salute.