Dalla Fraschetta al fine dining: i Castelli Romani nel piatto

Quando si parla dei Castelli Romani, si pensa subito alla classica gita fuori porta della domenica con la fraschetta, la porchetta e il vino buono. E magari qualche stornello. Un’associazione immediata quasi come fosse un assioma matematico. E invece sono solo degli stereotipi, in parte superati, in parte da superare.
Siamo a sud-est della Capitale, in un’area che si è originata dalle continue eruzioni e poi dal collasso del Vulcano Laziale, che ha generato laghi, montagne e valli agricole. Un territorio storico, che dall’antichità è sempre stato la campagna dell’Impero Romano: sorgevano qui le vigne, era qui che si produceva il vino dei patrizi e tutte le materie prime che rifornivano le cucine dell’impero. Nel corso dei secoli successivi, i diversi feudi passarono sotto il dominio della Chiesa di Roma che divenne la proprietaria di tutta la zona. Territorio di grande valore e cultura enogastronomica, che ha scritto la tradizione, dando vita alle ricette tipiche di Roma e dintorni.

Oggi il territorio è cresciuto, si punta alla qualità dei prodotti e all’eccellenza, ed è proprio il concetto di alta qualità e modernità che si vuole far comprendere a chi ha ancora una visione bucolica dei Castelli Romani. Un’idea che non vuole dissacrare la tradizione, ma semplicemente valorizzarla secondo un approccio contemporaneo.
Sapevate, per esempio, che ai Castelli Romani oltre ai prodotti DOP e IGP rinomati come il pane di Genzano, le fragoline di Nemi o la Porchetta si producono lo zafferano, il topinambur, lo zenzero, il paksoi (una varietà di cavolo originario della Cina), ci sono sistemi di agricoltura idroponica per la produzione di erbe aromatiche o di germogli? Tutti ingredienti, tra vecchi e nuovi, che vanno ad arricchire la cucina tradizionale e innovarla, secondo la mission di chef intraprendenti.
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I Castelli Romani si compongono di 17 borghi e qui, in un nostro immaginario giro turistico da Albano a Velletri, passando per Frascati che è il centro più grande e il cuore dei Castelli, scopriamo oltre alle classiche fraschette anche ristoranti fine dining, trattorie e bistrot: un panorama ristorativo ricco che da un comune denominatore si amplia tra sperimentazioni e proposte di nuova generazione.

Partiamo dal concetto di “fraschetta”, luogo di origine molto antica, sicuramente medioevale, ma che compariva già in epoca romana come punto di ristoro tra le campagne. Il suo nome deriva dall'usanza medievale in varie zone d'Italia di apporre una frasca (spesso di alloro) sopra l'ingresso delle case nelle quali era possibile consumare a pagamento del vino. Dei locali molto semplici, dove inizialmente si poteva anche mangiare del cibo portato dall’avventore stesso; poi, nel tempo, oltre al vino si cominciò a vendere qualche genere alimentare tipico, come la porchetta e i formaggi. Le fraschette moderne oggi somigliano sempre più a trattorie, con proposte di prodotti dall'enogastronomia laziale da aziende locali: porchetta, Corallina, Salamella, Coppiette e la Coppa di Testa, formaggi freschi e stagionati, olive e sottoli. A questi si aggiungono, poi, i primi e secondi piatti tipici della cucina romana, per chiudere il menu con le classiche ciambelline al vino, che si possono anche inzuppare nella Romanella (vino frizzante locale). Rinomata ad Ariccia c’è la “Selvotta”, con un menu molto corto, un tagliere enorme pieno di ogni ben di Dio, una bella pagnotta di pane di Genzano e un costo che va a peso. Ma, se siete in giro per i Castelli, in qualsiasi bottega alimentare o forno voi entriate, il panino con la porchetta (anche caldo) lo trovate di sicuro. Un esempio è il “Forno Ciaralli” che dal 1920 a Frascati con nonna Rossana produce pane, pizza bianca e rossa, e i dolci tipici come La pupazza frascatana. Finora vi abbiamo raccontato l’aspetto classico dei Castelli e, come abbiamo capito, quando dici “fraschetta” dici Ariccia ma, in questo piccolo borgo, lo stereotipo si è rotto dal 2020 con “Sintesi”, il ristorante 1 stella Michelin di Sara Scarsella e Matteo Compagnucci. I due chef si lasciano ispirare dalla tradizione di cui Ariccia e i Castelli Romani sono pregni, si innamorano dei prodotti locali, si alleano con i fornitori e, se questi mancano, diventano loro stessi produttori con il loro orto.
 
Da “Sintesi” vigono la regola della sostenibilità e il comandamento del rispetto e della valorizzazione degli ingredienti attraverso la tecnica che non deve scadere nell’esercizio di stile. Esempi di trasposizione del territorio e gusto assoluto si hanno con le loro due signature: Bottoni di bieta con formaggio e brodo di fungo porcino e Risotto affumicato, polvere di alloro e battuto di pecora a crudo, dove si gioca tra vegetali fermentati, brodi e toni di affumicato. Non possiamo non citare tra i fine dining dei Castelli Romani “La Galleria di Sopra” ad Albano dei fratelli Carfagna, tra i primi format differenti in zona dalla classica cucina romana. Lo chef si allontana dalle rivisitazioni ma punta tutto sul territorio raccontandolo con una sua personale visione. Forse è proprio questa la vera rivoluzione dei Carfagna: applicare un’intensa ricerca su ogni materia, saperla vedere e far assaporare da diversi punti di vista senza declinare sul banale. Ora andiamo verso Frascati; qui punto di riferimento è il “Ristorante Cacciani” che nel 2022 ha spento 100 candeline, un secolo di cucina attraversando le generazioni, i decenni, le mode gastronomiche in un legame indissolubile con il territorio.
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Ad arrivare a questo traguardo sono i fratelli Paolo, Leopoldo e Caterina Cacciani (terza generazione) che raccontano: “Le mura del ristorante ne hanno visti di personaggi: Fanfani, Saragat, Pertini, Clark Gable, Gina Lollobrigida, Alberto Sordi che amava le fettuccine con le rigaglie di pollo (come le faceva sua madre), Vittorio De Sica che cenava in terrazza con Maria Mercader, Rod Steiger che amava l’abbacchio alla cacciatora. E ancora Ben Gazzara, Antony Quinn, Paolo Stoppa e Abby Lane”. In un secolo di cucina, rimangono degli evergreen i Caccianelli alla Poldino, il crostino alla provatura, la straordinaria Cacio e Pepe, l’imperdibile zuppa inglese. Tutti piatti che nel corso del tempo hanno arricchito il menù.
 
Dalla tradizione della famiglia Cacciani passiamo ora a “Il Belvedere”, che è divenuto rapidamente uno dei locali più conosciuti della provincia di Roma, grazie alla sua cucina semplice e gustosa ma soprattutto grazie alla meticolosa cura dei dettagli. In cucina c’è Alain Rosica Matamoros, chef talentuoso e creativo, legato al territorio delle campagne romane e ai suoi prodotti; tra i suoi ultimi piatti, ci sono i Cappellacci di Saragolla, ripieni di un mix di bieta, cicoria, ramoracce e uvetta, con sopra fonduta di Pecorino e salsa di melograno, che prende ispirazione dal tradizionale piatto di fettuccine di grano antico con ragù bianco di agnello ed erbette.
 
Sempre qui a Frascati, tra le viuzze del centro c’è “Greed Avidi di Gelato” di Dario Rossi, maestro gelatiere incoronato dal “Gambero Rosso” come miglior gelato gastronomico nel 2017 e, dal 2018 ad oggi, presente in guida con il massimo punteggio dei Tre Coni. Lui definisce il suo gelato come naturale: “Mi rifiuto di fare tutto ciò che non sia naturale, non seguo le mode industriali e uso solo frutta, ortaggi e materie dei dintorni. Ogni anno cerco di proporre dei nuovi gusti, mentre i gusti più amati e richiesti sono ricotta di pecora con fichi caramellati e burro con confettura”. Oltre ai gusti “come natura comanda” ci sono anche i gusti gastronomici, categoria su cui Dario si è specializzato nel tempo come fiori di zucca e alici, cacio e pepe, gelato alla porchetta dei Castelli Romani; e poi il sedano di Sperlonga, la lattuga, la carota o il carciofo. Insomma, se entrate da “Greed Avidi di Gelato” a Frascati, già leggendo tutte le etichette vi renderete conto di questa esclusiva naturalità e territorialità del suo gelato, sottolineata dalla frase su una delle pareti: “quando compri un gelato stai comprando un pezzo di territorio”.
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Spostiamoci verso Monteporzio Catone. Qui, quella che nacque come fraschetta dove bere un bicchiere di vino nuovo è ora “Hosteria Amedeo”, con i suoi 60 anni e una cucina che porta la tradizione fuori dagli schemi. Le ricette sono quelle di famiglia con un approccio contemporaneo, che rimanda ai sapori di ieri, riconoscibili al primo boccone, ma con una forma nuova e che regalano l’effetto sorpresa. Il must? I fegatini di pollo sul pan brioche e le Cannacce con la Pajata alla cacciatora, dove abbiamo una pajata in bianco più leggera ma sempre saporita e un formato di pasta che si allontana dal solito rigatone. Il dessert qui è il gelato al vino del maestro gelatiere Roberto Troiani di Frascati, che si è dedicato a questo format molto identitario.
 
A Castel Gandolfo, c’è “Tinello”, nuovo bistrot aperto da un anno come progetto parallelo dalla mente dello stesso team di “Sintesi”, per offrire un format di qualità, più agile, con una cucina di prodotti del territorio. I protagonisti sono la pasta fresca che viene realizzata in casa con la trafila in bronzo, i vegetali provenienti anche dall'orto di proprietà, piatti da condividere per celebrare la convivialità e vini artigianali. A Marino è arrivato da qualche mese “Avus”, che propone solo 8 piatti, un menu in miniatura a dominanza vegetale nato da due giovanissime che cercano connessione con le loro radici e definiscono questo progetto come “un omaggio ai nostri nonni”, anche se si viaggia su fermentazioni, maturazioni e spinte acide.
 
Insomma, qui ai Castelli Romani c’è un grande fermento gastronomico, sperimentale, energico con tante e interessanti proposte diverse fra loro ma che prendono ispirazione da un territorio unico.
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di Giusy Ferraina

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