I colori della Campania e i sapori della Valle D’Aosta

La ricetta perfetta di Maurizio Saulle

“Quando ero piccolo mi appassionava guardare il mio maestro mentre faceva la pizza: chiudeva gli occhi e cantava, come se stesse suonando il pianoforte e con quelle mani creava qualcosa di meraviglioso. Mi trasmetteva che questo lavoro fosse qualcosa di bello, la sua passione diventava la mia. A causa del lavoro gli era venuta la gobba, ma non si fermava e instillava anche in me tutta quella forza, quel vigore. Ancora oggi, quando faccio la pizza penso a lui, che mi ha trasmesso così tanto. Oggi non è più così, la maggior parte dei pizzaioli vogliono essere “prime donne”.”

Quanto è bella l’idea di preparare una pizza come se si stesse componendo una melodia? È così che ne parla Maurizio Saulle, proprietario de “I Saulle” a Quart in Valle d’Aosta, insieme al papà e ai suoi fratelli. Discendente da una famiglia di pizzaioli casertani, ha iniziato il suo percorso quando era molto piccolo e non ha mai smesso di comporre. La voglia di crescere e cambiare era tanta, perciò, volendo sperimentare un tipo di prodotto diverso da quello che faceva suo nonno (una casertana molto sottile, croccante e senza cornicione), iniziò a studiare la pizza napoletana, portandola pian piano dapprima su al Nord e poi anche fuori Italia.
Oggi Maurizio gestisce, insieme alla sua famiglia, un locale con ben 200 posti a sedere nel quale propone un impasto napoletano “un po’ innovativo”, ma sempre molto tradizionale, con ingredienti di altissima qualità, passando da prodotti tipicamente valdostani a quelli rigorosamente campani. La proposta de “I Saulle” prevede infatti non soltanto la pizza, ma anche la ristorazione, gestita da uno chef napoletano.
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Maurizio, come inizia la tua storia?
Molti mi dicono che passo troppe ore qui dentro, ma io devo capire, studiare. Oggi ho 38 anni, ma sono partito da zero, ho preparato la mia prima pizza a 10 anni, nel locale di mio nonno nel casertano. Nel tempo ho iniziato a girare, spesso lavorando senza essere pagato, per formarmi. Inoltre, volevo imparare la pizza napoletana, molto diversa da quella di mio nonno. A 14 anni sono andato a Bagnoli, per apprendere da Gaetano Esposito, il mio maestro. A 19 anni volevo partire, la situazione era difficile: c’era chi ti sfruttava, chi non pagava e via dicendo. La valigia si era rotta, quasi fosse un segno ma non mi diedi per vinto e andai in Svizzera. Mi sentivo come se avessi sradicato le mie radici e decisi di tornare, ma nemmeno un mese e feci marcia indietro. Rimasi per un anno. Nel tempo ho girato tanto, sono stato a Ischia e poi anche a Bruxelles e in Canada. Ho intrapreso un percorso con l’AVPN. Ho partecipato a molti eventi insieme ad Antonio Pace e Stefano Auricchio e anche con la APN del compianto Sergio Miccù. Poi mi sono fermato in Valle d’Aosta.

Come mai proprio lì?
Ho lavorato per un po’ per un’azienda napoletana come responsabile di pizzeria e mi spostarono qui. Nel frattempo, mia mamma, che è un’infermiera, venne a lavorare qui e alla fine ci siamo spostati tutti. Siamo quattro fratelli, ognuno di noi ha intrapreso questa strada e oggi tutti abbiamo un ruolo e una mansione nella pizzeria. Il locale all’inizio era la metà di quello attuale, solo sessanta – settanta posti a sedere, ma era quasi sempre pieno. Oggi contiamo duecento coperti tra dentro e fuori, un angolo pizzeria, area bar, cinque pizzaioli, area ristorante e un angolo campano (durante l’intervista Maurizio mi mostra il locale, che nonostante la grandezza, si mostra caldo e accogliente. A spiccare è un’intera parete piena di foto che racconta la storia di questa famiglia e di tutte le persone passate di lì e anche la foto di un giovanissimo Maurizio partecipante al Campionato Mondiale della Pizza a Parma). Ad oggi abbiamo avuto diversi riconoscimenti: 50 Top pizza, tra le migliori 100 pizzerie d’Italia; due spicchi Gambero Rosso; recentemente l’Arcimboldo d’Oro. Sono belle soddisfazioni.
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Non dev’essere facile gestire un locale di una tale portata e con tanta affluenza. Siete partiti con la classica pizza napoletana ma nel tempo siete riusciti a diversificare?
Sì, dalle pizze fritte alla doppia cottura. Nel tempo, sicuramente i nostri impasti sono cambiati, non facciamo più un tipo diretto, ma dei prefermenti, cerchiamo di dare friabilità, scioglievolezza, lavoriamo su vari tipi di impasti, come il multicereali. Le persone si incuriosiscono, vogliono assaggiare, anche se l’impasto classico resta quello che va di più. Chi viene da noi lo fa perché vuole assaggiare la pizza napoletana e ama i prodotti prevalentemente campani, come il Provolone del Monaco, la salsiccia di suino nero o la mozzarella di bufala.

Visti i tanti posti a sedere, il menu è molto vasto o vi tenete sul semplice?
Facciamo sicuramente proposte stagionali: siamo in cinque proprio per gestire meglio le tante richieste. Poi ci siamo adeguati anche in termini di forno, oggi ne usiamo uno rotante. Chiaramente lavoriamo anche con prodotti locali come il Bleu d'Aoste, la toma, la fontina o il prosciutto cotto affumicato Saint-Oyen. Siamo ai confini con la Svizzera e la Francia, passano anche molti turisti e vogliono proprio provare cose locali. Dunque, proponiamo un po’ di prodotti campani e un po’ di prodotti territoriali.
 
Sei da tanti anni nel settore, quindi hai vissuto le fasi di cambiamento del mondo della pizza. Preferivi prima o adesso e cosa è maggiormente cambiato?
Non è più il mondo di una volta. Sicuramente sono cambiati impasti e gusti, oggi si lavora molto sui topping, i prefermenti, le cotture e soprattutto la qualità. Ritengo che non si debba mai dimenticare la storia. L’innovazione va bene, i tempi, la mentalità e le esigenze cambiano ma le radici sono importanti. Bisogna adeguarsi sì, ma mai perdere di vista la propria storia, da dove veniamo.
 
Quindi sei favorevole al gourmet?
(ride) A quello tradizionale. Scherzi a parte, credo che sia possibile solo in una pizzeria con pochi posti a sedere. Non sarebbe possibile in un locale tanto grande come il nostro.
So che sei stato anche pizzaiolo a Casa Sanremo, durante le giornate del Festival.
Sì. Eravamo in dieci, si lavora per le celebrità, un’esperienza bellissima, mi sembrava di essere a Disneyland: loro però non mangiano praticamente niente! Ho fatto anche il red carpet a Venezia ma ho preferito Sanremo, spero di rivivere l’esperienza.
 
Avete mai pensato di aprire al Sud?
Sì, ma preferisco non farlo. Non è facile la mentalità del sud, così come il modo di vivere purtroppo. Conosciamo bene la realtà di chi apre un’attività “giù”: non si vive e lavora serenamente, a differenza di qui. Attualmente stiamo pensando alla Svizzera, ma non è semplice, ci stiamo lavorando.
 
Qual è il segno distintivo vostro e del vostro impasto?
Lavorare sodo, curare il cliente. Noi siamo artigiani e cerchiamo sempre di alzare l’asticella. La materia prima è fondamentale. Il nostro impasto prevede una biga, lievitazione di 30 ore, la temperatura controllata e soprattutto prodotti di altissima qualità come ricotta di fuscella, provola d’Agerola, pomodoro San Marzano.
 
Che pizza mi faresti assaggiare?
La “Saulle Re”, la nostra pizza di battaglia, con la quale ho vinto un campionato a 17 anni: pomodoro ciliegino scarpariello, bocconcini di bufala di Mondragone, parmigiano e basilico fresco. Ma anche una “Donna Eleonora” con crema di zucchine, fior di latte, pancetta croccante e stracciatella; o, ancora, la “Carminuccio”, che viene prima fritta e poi asciugata in forno, con pomodorino confit, mozzarella di bufala, crudo e scaglie di parmigiano in uscita.
 
Però cucinate anche e ho visto che avete il bar: che ruolo gioca nel locale?
Abbiamo uno chef di Napoli che prepara piatti tradizionali, dalla terra al mare, come scialatielli ai frutti di mare, lo scarpariello o gli gnocchi alla sorrentina; ovviamente non manca la friggitoria napoletana. Abbiamo una bella carta di vini, prevalentemente campani, ma anche locali e non e dolci di nostra produzione e una carta di Sal De Riso. Il bar lo sfruttiamo più che altro per la preparazione dei dolci ma risulta utile per proporre un aperitivo ai clienti in attesa. Mi capita troppo spesso di aspettare, chiedere qualcosa da bere e sentirmi dire: “non serviamo aperitivi”, non è carino e non è funzionale. È giusto poter ingannare l’attesa bevendo qualcosa. Anche perché le persone sono molto impazienti: qui anche aspettare 20 minuti o mezz’ora non è molto gradito, ma ahimè, impossibile ovviare al problema. Per fortuna, c’è sempre da aspettare un po’!
 
 
 
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di Noemi Caracciolo

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