La Marchesella Gena Iodice

Una cuoca nella terra del Basile

C'era una volta, in quel di Giugliano in Campania, una ragazza di nome Luisa, che tutti chiamavano Luisella, classe 1900. Era bella. Di una bellezza genuina, abbondante come la sua generosità. Veniva da una famiglia agiata, dove non mancava nulla: terreni, istruzione, benestare. Un giorno conobbe Andrea, classe 1898, che invece, era un contadino, un uomo d'ingegno, con poco in tasca ma con una volontà di ferro. I due si innamorarono e lui, convinto che ella dovesse diventare sua moglie, andò dal padre di Luisella e, con tanto coraggio, gli disse: “Si nun m’a date, je m’a fuje...”. La cosiddetta “fuitina” sarebbe stata una vergogna per la famiglia ma il padre di Luisella, con il cuore diviso tra orgoglio e amore, disse: “Con tutto il mio amore, mi farebbe troppo male. Dio vi benedica”. Erano due mondi diversi. Lui una persona perbene, ma senza istruzione; lei, abituata all'agiatezza. Andrea possedeva una cantina, che durante la guerra divenne un rifugio per tante persone impaurite. Lì, dove si rifugiavano e sostenevano, crearono 'na cucinella, dove Luisella preparava fasul cavere, 'nu poco 'e brodo, ‘o decotto e mele per tutti. Ad un certo punto, ad Andrea sovvenne un’idea, la guardò e le disse: “ma visto che tu cucini accussì buon, pecché nun o facimm diventà 'nu lavoro?”
(Visto che tu cucini così bene, perché non ci trasformiamo in osti?, ndr).
Si erano già sposati, la casa c'era già e le possibilità pure: bastava aprire le finestre e lasciar entrare il profumo del cibo. E così nacque “Fenesta verde”, trattoria e osteria dal 1948. Sembra una favola de “Lo cunto de li cunti” di Giovambattista Basile, che proprio in questa città alle porte di Napoli fu scritto ma è, invece, pura realtà. Il loro cibo iniziò a farsi un nome. Il mercato ortofrutticolo di Giugliano – un tempo conosciutissimo – era un via vai continuo di commercianti, calabresi, siciliani e non solo, uomini affamati che cercavano un posto dove fermarsi.
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Le due finestre verdi della trattoria diventarono un punto di riferimento. Poiché non avevano un’insegna, erano i mercanti a mandare lì i passanti: “Jate a da chesta signora”, dicevano, “’e spalle d’Annunziata (il Santuario dove è venerata la Madonna della Pace, ndr), due finestre verdi, nun ve putite sbaglià. Lei è 'na bella signora, Luigella, cicciottella, e ‘o marito, don Andrea, tene 'o mellone! (è calvo, ndr)”. Erano conosciuti per la loro ospitalità e per la bontà dei loro piatti, che all’epoca erano poveri, anche solo una semplice “marenna”. All'inizio c'erano solo due stanze, poi ne arrivò un'altra. La terza, che un tempo era un giardino di pertinenza della chiesa, venne affittata e poi acquistata. Lì regnava un lungo tavolo di ferro, coperto da una tovaglia per nasconderne il brutto aspetto. Tutti mangiavano insieme, come in famiglia. C’erano convivialità, condivisione, sorrisi. Luisella era generosa.
La chiamavano “a padrona”, perché a casa sua non si pativa la fame. Quando qualcuno aveva bisogno, lei allungava il pane con l'olio e diceva: “Miette 'nu poco 'e cchiù, è olio buono, fa sangue!”. Andrea, invece, aveva la testa da imprenditore.
Portava sempre “o laps”, la matita incastrata dietro l'orecchio, come i vecchi mercanti. Non serviva chiunque, si sceglieva i clienti. Gena Iodice, la nipote degli osti racconta che il nonno spesso diceva: “nun me piacciono sti cristiani” ovvero non amava certi clienti così, se qualcuno non gli stava simpatico, cancellava il prezzo e lo alzava di 200 lire. Così sapeva che non sarebbero tornati più. La trattoria inizialmente non aveva un'insegna ma aveva un cuore grande. Un luogo dove il cibo non era solo cibo ma storia, famiglia, casa. Ancora oggi quella tradizione continua, con Gena, la sopracitata nipote di Nonna Luisella e Nonno Andrea.
 
Gena, adesso sei tu a portare avanti la tradizione dei tuoi nonni ma come hai iniziato?
Io non ricordo sinceramente quanti e quali sono stati i passi. Io sono cresciuta là, io vivevo e studiavo in cucina. Vicino mi ci sono messa un po’ più grandicella, ma già a 8/9 anni facevo le cose che potevano fare i bambini. Mamma la domenica chiudeva perché voleva andare a Messa, ci lasciava a casa a incavare gli gnocchi, poi faceva le fettuccine a mano e dopo ci diceva mettetele a essiccare… sulle sedie: “mi raccomando non azzeccate uno vicino a un altro altrimenti poi si spezzano”.
Per la promozione in quarto ginnasio, papà mi comprò un motorino, che non sapevo portare, per andare a fare la spesa. Come mestiere e lavoro, ho iniziato prima che mi sposassi a 24 anni, aiutando mamma ma ero in sala prima dei 14 anni. Ho avuto una formazione a tutto tondo. La cucina, però, era il luogo in cui trascorrevo l’estate, quando non andavo a scuola: ci tenevano a non distrarmi. Mamma è sempre stata contro questo lavoro, eh. Avendo lei avuto il sacrificio di portare avanti questa cosa con sua madre, diceva: “non fatelo… andate a scuola”. Papà era un operaio, lavorava di notte per dare una mano di giorno, sacrifici “a murì” (a bizzeffe, ndr). Ma tutti siamo entrati prepotentemente nell’attività, grazie alla passione e all’amore per questo lavoro.
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Essere una donna nel mondo della ristorazione può essere una sfida. Pensi che le cose stiano cambiando per le donne in cucina?
Io ho 57 anni. Gli anni brutti per le donne, che non erano proprio accettate, ci sono stati. Una volta all’anno andavo a Mantova per portare la cucina napoletana; una volta, con un caro amico di Slow Food scomparso da poco, Gilberto Venturini, “mi permisi” di scontrarmi con questi signori, che erano più di 100. Arrivò un applauso ma non sapevano che ci fosse una donna dietro a tutto quello che avevano mangiato. Quando mi presentarono dicendo “arriva lo chef”, l’applauso era fortissimo, poi però rallentò quando videro una donna. Ero più bianca della divisa. Il mio pensiero è che in passato nelle cucine non si voleva la donna perché non era vista bene ma anche per il fatto che comportava tanti sacrifici: noi lavoriamo quando gli altri si divertono. E noi donne dobbiamo fare le mamme, le imprenditrici, le cuoche, le nonne e all’epoca risultava pesante. Ma, come dice la mamma di un’amica: “sogliono i saggi adattarsi ai tempi”. Io non mi abbatto. A Mantova, dunque, dissi: “le donne hanno sempre avuto un grande ruolo nelle cucine; le nonne, le mamme, le perpetue… un ruolo che è sempre appartenuto alle donne, la storia ce lo insegna, si ricordano queste figure nelle nostre memorie. Ci avete mandato in prima linea a fare la guerra sulla luna e nella cucina non ci volete?”. Partì un applauso che non ti dico. Avanti a 120 persone.

Sei una cuoca dell’Alleanza Slow Food, Chiocciola della guida “Osterie d’Italia”. Cosa significa per te Slow Food?
È stato il movimento che mi ha cambiato la vita. L’ho conosciuto grazie a un incontro casuale, di un grande della pasta: Antonio Marchetti, che all’epoca presidente della cooperativa dei pastai gragnanesi. Io già sapevo qualcosa sul movimento ma non era come oggi che per sapere basta un click. Per prima cosa, andai a Terra Madre a Torino perché dovevo capire, sono passati oltre 20 anni. Andammo con il pullman. È diventato il mio credo. Lì, Carlo Petrini già all’epoca parlava della figura dell’oste, dell’incarnare il suo credo nelle piccole realtà locali ed è una cosa nella quale mi sono molto rivista. Ho avuto la chiocciola dalle sue mani (qui l’emozione si fa davvero viva, ndr). A quei tempi, eravamo in pochi a credere in questa cosa, pian piano inizi a capire, dentro di me sapevo che tutto quello che lui diceva era quello che io volevo: esprimere che Giugliano era famosa per il capocollo, la mela annurca, la pesca, il profumo… lui ci ha dato la forza. È stato una guida. Al primo “Terra Madre” io c’ero e non esistevano i telefonini; allo sventolio dei cappellini dei cuochi di tutto il mondo, fu una cosa meravigliosa. È una cosa impressa nella mia mente, tante persone di lingua diversa accomunate dal cibo. Bellissimo.
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Ti ha cambiata, certo, il cibo è un linguaggio universale. Com’è il rapporto con i produttori locali e come scegli gli ingredienti?
Sono scelti in base alle ricette che sono molto tradizionali, che ben venga l’innovazione, ma tradizione sempre. Non sempre riusciamo a seguire la stagionalità. La minestra maritata, lo stoccafisso e il baccalà, la scarola alla carrettiera, il migliaccio di carnevale, tutta la tradizione di mia nonna, mamma, nun se movono (sono fisse, ndr). Mio figlio mi dice sempre: “Quando muori tu la minestra non la fa più nessuno”. Sono un po’ fissata, la devo fare solo io, perché se non la lavi, sciacqui bene, sa di terra, ho le mie fisse. Ho un rapporto di fiducia con il produttore locale: quando muoiono questi, sono problemi seri. Per esempio, ho il signore che mi porta solo i friarielli perché voglio le cime. Quando, prima del 2000, usavo il fagiolo a formella a 10.000 lire al kg, mio padre mi diceva che io fossi pazza perché nessuno lo avrebbe capito e io gli rispondevo che con una bella scarola e fagioli glielo avrei fatto capire. Lui insisteva e, così, gli feci cambiare idea con una grande pasta e fagioli. Oggi sta a 12€ al kg ma lo compro ancora. Noi sceglievamo realmente chi ci doveva dare il carciofo, la minestra: era un rapporto fondato sulla fiducia di quella persona, perché a me doveva dare il meglio, io dovevo fare la qualità come mia nonna.

I tuoi figli proseguiranno nella tua strada?
Non lo so, una domanda da un milione di dollari. Forse il secondo. Il mio primo figlio è un chirurgo. Hanno sempre lavorato con me e, al contempo, studiato, come ho fatto io. Mi hanno sempre dato una mano e continuano a farlo. Poi, c’è anche mio marito Tommaso, che è un agronomo e mi ha sempre aiutata tantissimo, cosa che ho sempre sfruttato per l’approvvigionamento dei prodotti. Quando nessuno parlava di DOC, DOP, ecc., io già sapevo cosa fossero. L’amore e la passione sono andati avanti in me e le mie sorelle e – all’inizio – anche in mio fratello, che poi ha cambiato strada. Però noi femmine siamo rimaste in cucina. Se finiscono le femmine, finisce “’a Fenesta verde”, dice una mia amica.
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di Noemi Caracciolo

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