Cicorie, puntarelle ed erbe invernali

un po' di storia

Vanta origini millenarie, al punto da già essere nota agli Egizi che ne usavano il succo come medicinale; considerata da Galeno “amica del fegato” e amatissima dai romani per le sue qualità gastronomiche: da sempre la cicoria ha un posto speciale tra le preferenze e i gusti dell’uomo. Se riconoscerne l’aspetto è facilissimo, sulle origini etimologiche e i dettagli scientifici le cose si complicano. Per la classificazione tuttavia ci aiuta come sempre Plinio che, anzi, dettaglia come il nome cichorium sia di derivazione egiziana e ascrivibile alla cicoria selvatica, mentre inthybum, tra i romani, indicherebbe quella coltivata. La precisazione, anche se forse genera qualche confusione, in realtà è utile per capire come sin dall’antichità l’uomo abbia consumato quotidianamente la cicoria, al punto di arrivare a coltivarla, oltre all’uso come erba spontanea. Il successo secolare della cicoria è senza dubbio legato alle sue proprietà medicinali: depurativa, diuretica, stimolante del fegato, amaro-tonica, lassativa e cardiotonica, si riteneva stimolasse l’appetito e moltissime sono le ricette di insalate che sono giunte fino a noi. Condita spesso con olio e aceto (così consiglia di consumarla il Platina, umanista- gastronomo rinascimentale), viene consumata da sola o in abbinamento con altre erbe e verdure per bilanciarne il sapore. Nei testi antichi non mancano ovviamente le indicazioni che ci suonano più familiari: quelle in cui le foglie, lessate, vengono ripassate in padella con olio e aglio, esattamente come accade oggi, osservando la cucina tipica romana. In realtà la famiglia della cicoria è vastissima e, per non causare fraintendimenti, più sotto sono elencate erbe che più frequentemente definiamo semplicemente come radicchi o insalate ma che scientificamente sono classificate come appartenenti alla specie Cichorium inthybus. Tuttavia per non dilungarci troppo in ambito botanico, basti sapere che quella di cui abbiamo parlato finora, è quella universalmente riconosciuta come semplice “cicoria”, dalle inconfondibili foglie verdi, un tipico aspetto a ciuffo, un gambo molto lungo culminante con la vera e propria foglia. Quella, per capirci, che fu protagonista di un passaggio dal mondo della cucina a quello delle bevande: risalgono al XVII secolo i tentativi e i primi usi di tostare la radice per ricavarne un surrogato del caffè. La successiva diffusione del caffè di cicoria in ambito commerciale fu dettata dapprima dal blocco napoleonico continentale, quando l’importazione del caffè venne bloccata e, in seguito, durante la seconda guerra mondiale per lo stesso motivo: ancora oggi la memoria di una bevanda alternativa è rimasta nei ricordi di molti adulti.
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Puntarelle e biodiversità in foglia

Nella grande e affollata famiglia delle cicorie, impossibile non parlare della Cicoria Witloof (conosciuta come Belga) o indivia Belga, introdotta in Italia dai Paesi Bassi e subito apprezzata. Ha foglie croccanti, che rimangono bianche perché la coltivazione avviene in assenza di luce, e di sapore delicatamente amarognolo. È ideale cruda in pinzimonio, accompagnata con formaggio cremoso e noci, oppure brasata o rosolata in padella con fiocchetti di burro, e in forno. Da ricordare anche indivia scarola e riccia: formate da molte foglie raccolte a rosetta, rimangono molto serrate nel cuore del cespo tanto da essere più chiare e più tenere. Le foglie hanno una costa centrale spessa circondata da lembi più o meno ampi, frastagliati o arricciati a seconda della varietà. Si consumano crude in insalata da sole o in misticanza. Varietà di cicoria catalogna, di cui sono i germogli, le puntarelle sono uno degli ortaggi simbolo della cucina romana. La pianta da cui si ricavano ha portamento eretto con al centro un cespo voluminoso e carnoso di foglie di un bel verde intenso e di forma allungata, con la costa bianca e la parte verde seghettata. All’interno del cespo si trovano i talli, delle cimette simili per aspetto ad asparagi bianchi. Questi talli, che altro non sono se non i germogli della cicoria che si prepara a produrre fiori e semi, sono quelli da cui si ricavano le puntarelle. Hanno origini antichissime e sono citate da illustri autori del passato come Plinio e Galeno, che le consigliava come adatte alle malattie del fegato. Hanno un inconfondibile gusto lievemente amarognolo, sono tenere e croccanti e in cucina sono consumate sia crude che cotte. Nel primo caso l’ideale è tagliarle a listarelle nel senso della lunghezza, condirle con olio, limone e filetti di acciuga. Ottime appena scottate in padella, mentre le foglie esterne si possono usare per le zuppe di verdure.
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Al nord diventa radicchio

Impossibile non citare, proseguendo nel nostro viaggio gastronomico all’interno della grande famiglia delle cicorie e delle erbe invernali, i radicchi: la ricchezza del patrimonio italiano è notevole e vale la pena attraversare la penisola per assaggiare le varietà migliori. Il primo è certamente il Radicchio Rosso di Treviso: prodotto a marchio Igp del Veneto, ha foglie elegantemente lanceolate con i germogli che tendono a curvarsi e chiudersi in punta. Il colore è un rosso rubino inconfondibile, cui si aggiunge una nervatura principale bianca. È noto per la sua croccantezza e per una dolcezza che lo vede impiegato anche per composte, marmellate e persino dolci. Due le varietà: il precoce e il tardivo. Il primo ha cespo voluminoso e allungato, foglie più grosse e larghe, sapore amaro più spiccato e si raccoglie da settembre fino a fine novembre mentre il secondo è raffinatissimo è frutto di un sapiente lavoro di imbianchimento che gli dona la delicatezza tipica. Dopo la raccolta, viene immerso in vasche colme d’acqua di risorgiva per circa 10 – 20 giorni, a 10°-12°C, qui toelettato e pronto per essere consumato. Oltre alla provincia di Treviso, si produce anche nelle province di Padova e Venezia. Ci si sposta di pochi km per il Radicchio Variegato di Castelfranco Igp, noto come la “rosa che si mangia”, a causa della forma che richiama quella del fiore, frutto di un incrocio tra il Radicchio di Treviso e la scarola. Una volta raccolto, è posto in casse con fondi retinati e conservato al buio: le nuove foglie sviluppano in questo modo una consistenza croccante e sottile. Le foglie sono leggermente ricce e con striature su tutta la superficie, dal rosso al violaceo, al viola chiaro. È leggermente dolce, vagamente amarognolo e si consuma in insalata. Un salto nel veronese per il Radicchio di Verona Igp: ha foglie ovali ed allungate a formare un cespo compatto e il colore è rosso scuro intenso con nervatura principale bianca. Il sapore è amarognolo, perfetto per insalate miste arricchite da formaggio e noci. Eccellenza marina è il Radicchio Rosso di Chioggia Igp: il terreno sabbioso, la falda sottosuperficiale, il vento e un clima mite sono gli ingredienti responsabili della sua sapidità. Il cespo è tondeggiante e compatto, con foglie rosse dalle nervature bianche e sapore amarognolo e si distingue nelle verità precoce e tardivo. Il disciplinare prevede che sia coltivato solo nei comuni di Chioggia, Cona e Cavarzere (Venezia). Eccellenza friuliana è la Rosa di Gorizia, radicchio dalla fine bellezza regale. Coltivata inizialmente come nicchia e solo negli orti cittadini e nelle zone agricole alla periferia della città, vanta ora una coltivazione più ampia. Le foglie raggiungono la grandezza ideale in autunno e, grazie ai primi freddi, acquistano un colore inconfondibile, che va dal verde intenso al melanzana, al rosso. Una volta raccolta, viene legata
a mazzi e lasciata in ambienti riparati, caldi e privi di luce per circa due settimane, a 10°-15°C. Questa tecnica consente di avere colori ancora più accesi, consistenza croccante e ne accentua il sapore, che diventa saporito e appena amarognolo. Slow Food ne ha fatto un Presidio. Menzione speciale merita il Pan di Zucchero, sopran- nome goloso per il Radicchio Milano. Terra d’elezione – e coltivazione – di questa specialità è ovviamente la Lombardia. Assomiglia ad una lattuga ma è una cicoria: le foglie sono carnose, di colore verde molto chiaro tendente al bianco. Il cespo, dal sapore amarognolo, si consuma intero, sia crudo, sia sbollentati per pochi minuti e poi ripassato in padella.
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di Caterina Vianello

Marzia Buzzanca

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