Clickbait
Il primo – e più importante – fenomeno di cui siamo vittime è quello del clickbait. Diciamoci la verità: oggi si legge pochissimo e le notizie, per essere lette, devono necessariamente sintetizzare in pochissime righe ciò che è la nostra (spicciola) brama di sapere. In pratica, tutto ciò che prima occupava intere pagine dei tabloid, ovvero approfondimenti, riflessioni, analisi (un articolo come questo, insomma) sono generi in via d’estinzione. Per avere successo, un articolo deve passare sui social ed essere condiviso da un buon numero di utenti che fanno parte delle nostre cerchie (o che incrociano il nostro “algoritmo”, ma questa è un’altra storia) e, per arrivare a tanto, quella notizia deve avere un po’ di pepe: uno scandalo, un gossip o, magari, una curiosità “morbosa”. Non è un caso che i fenomeni di TikTok e Instagram siano spesso coloro che semplificano ogni messaggio con claim e tormentoni, i cosiddetti “meme”. Il clickbait richiede inoltre che la cosa più importante sia il titolo e come questo sia scritto: al fine di raggiungere l’agognato “clic” (che si traduce in entrate pubblicitarie), si sceglie dunque di sacrificare la verità (o almeno una parte) per semplificare il più possibile il messaggio, giustificandosi che poi tutto viene spiegato meglio nell’articolo ma fingendo di dimenticare che buona parte delle persone, anche dopo aver letto, ricorderà di fatto quasi esclusivamente il messaggio del titolo. Ora, il discorso è che in presenza di notizie di quella che era una volta definita la “cronaca rosa” e che riguardano, ad esempio, Barbara D’Urso o Damiano dei Maneskin, il problema del clickbait è assolutamente di minore importanza mentre diventa particolarmente importante nel caso di articoli che trattano argomenti di interesse storico, di politica e di cronaca nera, che richiedono qualcosa che sia il più vicino possibile all’oggettività per essere presentati.
Fact-checking
La deontologia professionale obbliga chiunque si ponga a scrivere un articolo o un testo scientifico di verificare le proprie fonti. Ma cosa vuol dire in pratica? Immaginate di trovarvi in montagna e di cercare qualcosa da bere perché avete sete. Avrete più possibilità: andare al bar e acquistare una bottiglietta d’acqua, scegliere una fontana pubblica oppure andare presso un fiume e prendere l’acqua che sgorga dalla sorgente. In quest’ultimo caso, state scegliendo quella che si chiama una “fonte primaria”, negli altri due casi siete in presenza di “fonti secondarie” che sono di primo livello nel caso di una fontana pubblica (perché collegata direttamente all’impianto idrico locale) e di secondo livello nel caso in cui scegliate il bar (perché quell’acqua ha subìto il passaggio dell’imbottigliamento prima di giungere a voi). Lo stesso discorso vale quando cerchiamo un’informazione in Internet. Non basta trovare la pagina più letta o il primo risultato che ci offre Google ma andare a verificare da dove quell’informazione viene presa e – soprattutto – metterla a confronto con notizie che trattano lo stesso argomento per circostanziare i fatti. Se, per esempio, io trovo un ricettario del ‘600 in cui si parla di molte ricette ma non di pizza, non posso escludere che la pizza esistesse già in quel tempo, perché i ricettari erano scritti da cuochi cortigiani ed erano dei manuali che veicolavano tecniche di cucina e ricettazioni tra le casate nobiliari o borghesi. Ed è abbastanza risaputo che la cucina popolare e quella “aulica” erano contrapposte (e, in realtà, lo sono tuttora) perché il cibo rappresentava uno status symbol per chi deteneva il potere. A insegnarcelo sono per esempio le opere del pittore milanese Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) che ha specializzato la sua ritrattistica nella costruzione di volti con elementi agricoli e gastronomici in grado di identificare la classe sociale, oltre che l’identità, di una persona.