Napoli e la Campania sono realtà che comunque tu non hai mai abbandonato.
No, mai. Prendo sempre a lavorare persone dal sud. Proprio poco fa è salito un ragazzo dei Quartieri Spagnoli. Non lo faccio per chissà quali motivi ma semplicemente perché credo abbiamo la cultura del cibo e, in particolare, della pizza. Poi, anche per dare un’identità al locale. Chi meglio di un napoletano può capire la cultura del cibo povero? Mi piace coinvolgere anche persone che hanno un passato difficile. Ho fatto corsi in carcere spinto dal passato di mio padre, che adesso non c’è più a causa di un tumore. Quando lui se n’è andato, ho voluto portare avanti il suo progetto: aiutare. Alla fine, nessuno più di lui mi ha dato un giusto esempio, mi ha fatto capire che chi sbaglia può rimediare. L’importante è credere in ciò che si fa e nel cambiamento.
Il progetto del carcere di Canton Mombello è stato bellissimo, ho conosciuto persone che davvero mi hanno lasciato un segno e, dopo, abbiamo anche assunto dei ragazzi. Uno di loro purtroppo è ricaduto nei problemi di droga e alcol che aveva già avuto ma, dopo dieci anni di carcere, non è facile riprendersi. Io ci entravo una volta a settimana e ogni volta mi lasciava un segno. Il sentir chiudere quelle porte alle tue spalle è una cosa indescrivibile, fa paura. Però è bello che ci siano tante realtà anche lì dentro, che diano possibilità. Ci sono corsi di ogni specie, dalla sartoria alla cucina, dall’arte alla lingua, ed è bello. Dal mio punto di vista, in base a quanto ha vissuto mio padre, chi ha sbagliato può insegnare tanto e dimostrare tanto.
La tua storia è frutto di un riscatto.
Sì, certo. Io sono convinto che si possa rimediare, che sia inutile emarginare, altrimenti chi davvero vuole cambiare non avrà l’opportunità di farlo.
Se tu fossi rimasto a Napoli e non avessi intrapreso la strada della cucina, cosa avresti fatto?
Non sarebbe stato facile. Già il solo fatto di sentirti emarginato solo perché vivi nelle case popolari è brutto. Ti racconto un aneddoto: una volta uscii con una ragazza bellissima e pensai: “wow, sta uscendo con me”. Mia sorella abitava in centro a Frattamaggiore, dove c’era bella gente e una volta, mentre eravamo lì, la ragazza mi disse: “ma non sali a casa?”. Quando le dissi dove abitavo io, non la vidi né sentii più. Pura emarginazione. Noi che abitavamo lì, venivamo visti come quelli che spacciavano o rubavano.
Alla fine, credo che se continuamente vieni trattato in un determinato modo, come uno zingaro, come se venissi dal ghetto, etichettato, emarginato, giudicato, finisci per non avere molta scelta e diventare davvero così. Ci sono realtà come lo spaccio – una cosa che aborro perché odio qualunque tipo di droga – ma anche tante brave famiglie. All’epoca, c’era gente che lavorava per pochi soldi e portava avanti una famiglia.
Però c’è chi ce la fa, come te per esempio. Quando sei andato via, come hai vissuto il cambiamento lavorativo?
Mi sono sempre sentito accolto e apprezzato. Mi dicevano che in Trentino erano razzisti nei confronti dei napoletani; in realtà, per me non è stato così. Dopotutto, se fai conoscere il vero napoletano, quello della Napoli bella, perché dovrebbe essere il contrario? Il proprietario dell’albergo in Trentino, quando arrivava la mattina a lavoro mi diceva: “Uè Uè, come stai?”. Se mostri il vero, il bello e non sei un buffone, allora ti accolgono. Noi napoletani abbiamo tantissime buone qualità, come l’arte dell’arrangiarci, l’umiltà e la semplicità. Poi abbiamo portato la pizza in tutto il mondo, no? Abbiamo fatto storia e credo la facciamo ancora.