Il valore del riscatto.

Ciro Di Maio - San Ciro, Brescia

“Una briciola di volontà pesa più di un quintale di giudizio e persuasione”

Arthur Schopenhauer

 
Ciro Di Maio, 34 anni, è un giovane originario di Napoli, nato e cresciuto in un quartiere non facile, che ha scelto di aggrapparsi alla vita e alla volontà di fare sempre meglio. È un amante della buona cucina con un piccolo ego e un grande cuore. Sulla scia delle brutte esperienze vissute dal suo papà e la rinascita dello stesso, ha intrapreso una strada fatta di bontà d’animo e duro lavoro. Un percorso che ha dato i suoi frutti. Ciro, infatti, oggi è proprietario di San Ciro, ristorante e pizzeria a Brescia, locale di gran successo, dove è possibile assaggiare piatti e pizze legati alla tradizione napoletana, contornati da un pizzico di innovazione e tanta dedizione.
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Partiamo dal tuo passato che so essere stato non proprio facile. Qual è la tua storia?
Mio padre ha avuto un passato turbolento finché non sono nato io e ha deciso di cambiare vita per dare un futuro anche a me, per non farmi sbagliare. Conobbe le suore di Madre Teresa di Calcutta a Napoli, a Vico dei Panettieri vicino San Gregorio Armeno, che gli cambiarono la vita. Si dedicò totalmente a progetti sociali e alla realizzazione di una cappella nel quartiere popolare dove abitavo io, a Frattamaggiore. Era molto appassionato di cucina; infatti, tutte le domeniche mi portava dalle suore a cucinare per i poveri, i senzatetto. Quelle sono state le mie prime esperienze: tagliare l’aglio, la cipolla, fare il pomodoro in quei pentoloni giganti. Da lì è nata una passione, come una sfida con mio padre.
Iniziai a frequentare l’alberghiero, ma ero terribile a scuola, facevo solo guai. Già a 14 anni lavoravo e studiavo. Mi davano 50 lire ogni due settimane. Siamo quattro figli, le mie due sorelle facevano le calzolaie per pochissimi soldi a nero e mio fratello era troppo piccolo per lavorare. La situazione era quella che era, quindi bisognava darsi da fare.
Conobbi la famiglia Fornito - quattro generazioni di pizzaioli - e mi dissero che cercavano un fornaio e mi chiesero se volessi imparare. Ovviamente dissi subito sì. Poi mi chiamarono alla Locanda Masaniello. Partii la prima volta a 17 anni per lavorare in un hotel a 2 stelle a Cattolica, facevo le stagioni estive. Ebbi il mio primo contratto. Febbre, non febbre, dolori, lavoravo sempre. Ad un certo punto tornai a Napoli, la mia mamma aveva un negozietto sfitto e vuoto lasciatole da mia nonna in centro a Fratta e, avendo sempre l’idea di voler aiutare la mia famiglia, comprai 200 € di detersivi e iniziai a venderli, insieme ad articoli da regalo. Feci dei finanziamenti e ci lavoravano mia mamma e mio padre, mentre io continuavo a fare il cuoco. A scuola nel frattempo dormivo, perché la notte lavoravo.
Ad un certo punto mi chiamò un hotel a 4 stelle in Trentino e così lasciai la scuola. Da lì passai a Rossopomodoro a Brescia per fare una sostituzione e, alla fine, conobbi una società napoletana che aprì un ristorante, fallì però abbastanza in fretta. Nella stessa, subentrarono altri imprenditori che avevano soldi ma non competenze nella ristorazione e così mi dissero: “guarda, ti regaliamo il 20 %, basta che ci aiuti a sistemare tutta la situazione”. Accettai. Al primo assegno chiamai il commercialista incredulo, non ne avevo mai visto uno. Pian piano iniziai ad acquistare una quota alla volta e, alla fine, presi la maggioranza. All’inizio non uscivano soldi, dovevamo eliminare tutti i debiti. Pian piano, ho preso il controllo della società.
 
È sempre stato “San Ciro” il nome del locale?
No, inizialmente è nato come “Pizza Madre” ma, visto che non avevamo registrato il nome, ne sono state aperte tante e, per distinguermi, ho creato “San Ciro”. I miei nonni si chiamavano così e, in più, è un nome che sento proprio napoletano.
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Napoli e la Campania sono realtà che comunque tu non hai mai abbandonato.
No, mai. Prendo sempre a lavorare persone dal sud. Proprio poco fa è salito un ragazzo dei Quartieri Spagnoli. Non lo faccio per chissà quali motivi ma semplicemente perché credo abbiamo la cultura del cibo e, in particolare, della pizza. Poi, anche per dare un’identità al locale. Chi meglio di un napoletano può capire la cultura del cibo povero? Mi piace coinvolgere anche persone che hanno un passato difficile. Ho fatto corsi in carcere spinto dal passato di mio padre, che adesso non c’è più a causa di un tumore. Quando lui se n’è andato, ho voluto portare avanti il suo progetto: aiutare. Alla fine, nessuno più di lui mi ha dato un giusto esempio, mi ha fatto capire che chi sbaglia può rimediare. L’importante è credere in ciò che si fa e nel cambiamento.
Il progetto del carcere di Canton Mombello è stato bellissimo, ho conosciuto persone che davvero mi hanno lasciato un segno e, dopo, abbiamo anche assunto dei ragazzi. Uno di loro purtroppo è ricaduto nei problemi di droga e alcol che aveva già avuto ma, dopo dieci anni di carcere, non è facile riprendersi. Io ci entravo una volta a settimana e ogni volta mi lasciava un segno. Il sentir chiudere quelle porte alle tue spalle è una cosa indescrivibile, fa paura. Però è bello che ci siano tante realtà anche lì dentro, che diano possibilità. Ci sono corsi di ogni specie, dalla sartoria alla cucina, dall’arte alla lingua, ed è bello. Dal mio punto di vista, in base a quanto ha vissuto mio padre, chi ha sbagliato può insegnare tanto e dimostrare tanto.
 
La tua storia è frutto di un riscatto.
Sì, certo. Io sono convinto che si possa rimediare, che sia inutile emarginare, altrimenti chi davvero vuole cambiare non avrà l’opportunità di farlo.
 
Se tu fossi rimasto a Napoli e non avessi intrapreso la strada della cucina, cosa avresti fatto?
Non sarebbe stato facile. Già il solo fatto di sentirti emarginato solo perché vivi nelle case popolari è brutto. Ti racconto un aneddoto: una volta uscii con una ragazza bellissima e pensai: “wow, sta uscendo con me”. Mia sorella abitava in centro a Frattamaggiore, dove c’era bella gente e una volta, mentre eravamo lì, la ragazza mi disse: “ma non sali a casa?”. Quando le dissi dove abitavo io, non la vidi né sentii più. Pura emarginazione. Noi che abitavamo lì, venivamo visti come quelli che spacciavano o rubavano.
Alla fine, credo che se continuamente vieni trattato in un determinato modo, come uno zingaro, come se venissi dal ghetto, etichettato, emarginato, giudicato, finisci per non avere molta scelta e diventare davvero così. Ci sono realtà come lo spaccio – una cosa che aborro perché odio qualunque tipo di droga – ma anche tante brave famiglie. All’epoca, c’era gente che lavorava per pochi soldi e portava avanti una famiglia.
 
Però c’è chi ce la fa, come te per esempio. Quando sei andato via, come hai vissuto il cambiamento lavorativo?
Mi sono sempre sentito accolto e apprezzato. Mi dicevano che in Trentino erano razzisti nei confronti dei napoletani; in realtà, per me non è stato così. Dopotutto, se fai conoscere il vero napoletano, quello della Napoli bella, perché dovrebbe essere il contrario? Il proprietario dell’albergo in Trentino, quando arrivava la mattina a lavoro mi diceva: “Uè Uè, come stai?”. Se mostri il vero, il bello e non sei un buffone, allora ti accolgono. Noi napoletani abbiamo tantissime buone qualità, come l’arte dell’arrangiarci, l’umiltà e la semplicità. Poi abbiamo portato la pizza in tutto il mondo, no? Abbiamo fatto storia e credo la facciamo ancora.
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Come mai hai deciso di proporre sia la pizza che la cucina?
Ho iniziato come cuoco, però poi con l’aiuto della famiglia Fornito di cui ti parlavo prima, mi sono innamorato anche della pizza. Papà mi diceva di fare lo chef perché riteneva essere un mestiere più “importante”. Ovviamente non è più così. Nei miei piatti c’è la cultura della cucina napoletana: dai più semplici, come la pasta e patate, lo scialatiello allo scoglio o “noci e nucelle”. L’ho chiamato “piatto della tradizione antica napoletana” ma in realtà non è proprio napoletano. Io comunque cerco di metterci anche un po’ di mio. Per esempio, in questo caso, pasta “Noci e nucelle” – che è un piatto semplice, povero – si prepara con olio, acciughe, noci e nocciole. Io non ci metto le acciughe per accontentare anche i vegani o vegetariani e faccio: base aglio, olio, prezzemolo e peperoncino, un bel soffritto, acqua di cottura della pasta e crema di noci e nocciole invece di sbriciolarle e concludo con qualche nocciola sopra. Stessa cosa per le pizze: ci metto sempre un po’ di me, perché comunque cuoco e pizzaiolo devono essere anche artisti. Per la diavola, ad esempio, la faccio proprio come si faceva quando è stata inventata, quando non esisteva il salame piccante: uso salame Napoli e peperoncino. All’inizio mi chiedevano come mai, poi i clienti si sono abituati, perché hanno anche capito la qualità del prodotto che servo. Il salame me lo faccio arrivare direttamente da Napoli.
 
Ma in che senso la tua pizza ha le orecchie?
In realtà tutti quelli che fanno una pizza veramente artigianale le fanno. La mia è a ruota di carro e quando la tiriamo a destra e sinistra si fanno le orecchie. Non mi piacciono le cose perfette, la pizza super rotonda da me non la troverai mai. La vera pizza si distingue per sapori, odori e forma.
 
Pensi di tornare a Napoli o comunque di aprire qualcosa “giù” in futuro?
Per il momento no. Però continuerò a coinvolgere ragazzi di Napoli, soprattutto chi ha più bisogno. Mi piace aiutare le persone.
 
Però aiuti anche gli animali mettendo al contempo in gioco una politica antispreco.
Ho iniziato un progetto con il canile perché notavo che l’acqua era troppo sprecata ed è un bene prezioso. I clienti lasciavano sempre una bottiglina quasi intera sul tavolo e inizialmente la prendevo per i miei cani, però era davvero tanta, troppa. Così è nata l’idea di collaborare con il canile. È stato un successo, mi ha chiamato anche un assessore di un comune in provincia di Bologna, si è complimentato e mi ha chiesto di parlare insieme del progetto, per proporlo anche nella sua zona. Ieri proprio abbiamo portato 40 litri. Bastano due minuti ma ne vale la pena. Il mio gesto è solo una piccola goccia ma, se lo facessero tutti, secondo me sarebbe una gran cosa. Oggi i giovani difficilmente capiscono l’importanza del non sprecare, i sacrifici che hanno fatto i propri genitori o nonni. È importante fargli capire che bisogna darsi da fare. Io ringrazio tanto mio padre per avermi trasmesso questi valori.
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Parlami dell’impasto della tua pizza.
È semplicissimo e lo faccio ancora a occhio. Tocco l’impasto con le mani, mi regolo con l’umidità e aggiusto di lievito, sale ecc.; di quest’ultimo ne uso davvero poco, non mi interessa il guadagno sulle due birre che il cliente per dissetarsi debba prendere. Preferisco mangi una buona pizza e piuttosto alzare il prezzo di 1 €.
 
Da dove trai la tua ispirazione per piatti e topping?
Innanzitutto, sono un buon cliente e una buona forchetta prima di essere un cuoco e un pizzaiolo. Le idee mi vengono così, senza un particolare motivo. Amo mangiare e sono molto critico con me stesso.
 
I clienti vengono più per la pizza o per la cucina?
Per la pizza. Però, poi, assaggiando i prodotti, tornano per la cucina. Come ti dicevo uso solo prodotti di ottima qualità, la maggior parte degli ingredienti mi arrivano da Napoli. Come il pomodoro per esempio o la farina.
 
Tre prodotti che non possono mancare nella tua dispensa?
Basilico, prezzemolo e peperoncino. Amo il piccante, anche troppo in realtà. Mi è capitato anche di avere qualche piatto o una Diavola indietro perché troppo piccanti ma è più forte di me.
 
Il piatto che va per la maggiore?
Lo Scarpariello: faccio appassire un bel datterino, faccio una cremina con il pomodoro; poi aglio, olio e peperoncino a soffriggere, un po’ di basilico, salto la pasta, aggiungo un mix di Pecorino Romano e Grana Padano, ancora a saltare e, in uscita, altro pecorino e grana. Bello cremoso. Poi la pasta e patate: una classica napoletana ma ci mettiamo il nostro guanciale pepato che io amo; pomodorini per macchiare, patate e, a fine cottura, grana “a go go” e provola affumicata.
 
Piatto e pizza preferiti?
Spaghetto con le vongole. Personalmente preferisco il pesce. Anche un bel piatto con l’astice, però. Non avendolo mai mangiato da piccolo, quando l’ho assaggiata mi è rimasta impressa. Il pescato lo prendiamo in base alle disponibilità, qui non è facile trovarlo. Riguardo alla pizza, non ne ho una in particolare ma mi piace molto la Cosacca o una bella Margherita fatta bene.
 
Se venissi da te, che menu mi proporresti?
Una pizza che ho dedicato alla mia mamma, la Patriziella: una fritta, con mozzarella e pomodorini e in uscita Bufala campana DOP che si scioglie sopra. Come primo, uno spaghetto alle vongole che mi piace fare; come secondo, un bel fritto di pesce, che da noi va davvero tanto e poi una bella fetta di pastiera che faccio io, con la ricetta di mia mamma. O anche un bel tiramisù alla Nutella che faccio sempre io, con la crema chantilly.
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di Noemi Caracciolo

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