Il mondo del gelato, specchio della gastronomia

Come la pizza, anche il gelato esprime un concetto più che una mera preparazione: un know how che, sebbene non sia di origine italica, qui si è sviluppato ed evoluto, assumendo caratteristiche peculiari che lo distinguono da tutti gli altri appartenenti della famiglia dei freddi. Anche (ma non solo per questo) non è traducibile né confondibile con icecream o creme glacés. Potremmo farne una banale storia di numeri, sciorinando statistiche e percentuali, concentrandoci sui fatturati e consumi di coppette pro-capite, esplorando la distribuzione sul territorio nazionale e sul calendario, eppure nessuno di questi dati, da solo o combinato, riuscirebbe comunque a dare una fotografia rappresentativa ed esaustiva di quello che è il variegato mondo del gelato italiano nel Belpaese e nel mondo.
 
Non è nemmeno così facile ridurre il tutto in “artigianale” e “industriale”: esistono infatti una serie di sfumature che rendono la classificazione della produzione gelatiera più complicata di quel che sembra, non solo per la biodiversità di ingredienti e di creatività che ci contraddistingue, ma anche per una pruriginosa questione burocratica che rende ulteriormente faticosa una suddivisione chiara e priva di fraintendimenti. Nel nostro comune pensare infatti, siamo soliti ricondurre al mondo dell’artigianale un prodotto fatto a mano, unico e riconoscibile, rispettoso delle tradizioni e - perché no? - genuino. Peccato che ognuno di questi concetti viene contraddetto nei fatti quando si parla di gelato, soprattutto di gelato contemporaneo visto che, ad esempio, nessuno di questi potrebbe esistere ed essere prodotto a mano, senza l’impiego di macchine, che miscelano, pastorizzano, mantecano, stabilizzano e conservano affinché il risultato finale esprima al meglio le proprie caratteristiche organolettiche.
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Allo stesso tempo, non ci ritroveremmo sul cono ciò che abbiamo se, nel corso della sua storia, qualcuno non avesse pensato di uscire dalla strada più battuta e conosciuta, per percorrere altre vie: se così non fosse stato, oggi berremmo ancora ghiaccio condito, invece che mangiare gelato. La sua evoluzione, quindi, deve dire grazie a chi, incurante delle abitudini e incuriosito dal possibile, ne aggiunse man mano ingredienti o tecniche, cambiandone forma e struttura: di base è una miscela liquida che, tramite azioni meccaniche e reazioni fisico-chimiche, ingloba freddo e aria per diventare prima spatolabile e poi gustabile.
 
Questo dovrebbe portarci a una seconda riflessione: il gelato non esisterebbe nemmeno senza la chimica, quindi non dovremmo porci nei confronti di essa pregiudiziosi a priori e nemmeno farci trascinare nella retorica di un rassicurante “fatto come una volta”, confondendo l’antico come genuino: sappiate che le frodi alimentari sono sempre esistite e non per colpa della chimica in sé, grazie alla quale campiamo e trasformiamo ma di una generalizzazione sia semantica sia fraudolenta che se ne fa in alcuni casi (e in tutti i settori). La stessa considerazione è applicabile a molti altri vocaboli o concetti che girano in tutti i campi gastronomici (e non solo), a partire da quelli che ci sembrano più confortevoli e rassicuranti (come naturale, km0, artigianale) a quelli che ci allarmano (come additivo, semilavorato, industriale): fobie alimentari nate e nutrite a suon di semplificazioni, slogan, informazioni elargite spesso in modo approssimativo e sibillino, per volontà o per ingenuità e forse anche per una certa pigrizia cognitiva umana che necessita di ridurre e riassumere il più possibile, fino a svuotare le parole di ogni significato e potenzialità.
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La semplicità consta di una sua complessità, fatta forse di pochi elementi, ma tanti dettagli senza i quali non potrebbe definirsi tale. Basti pensare al pane, il cibo più basilare e quotidiano che mettiamo in tavola tutti i giorni. In apparenza semplice, una pagnotta racchiude tante complessità: sapori, saperi, tecnica, riti, errori, evoluzioni, involuzioni, territori, chimica, fisica, matematica, storia e molto altro. Cosa e quanto possiamo togliere da questo elenco, già ridotto, affinché quell’insieme di mollica e crosta possa ancora essere definito “semplice” e ancora riconosciuto come “pane”? Capite meglio ora di quanto possa essere complessa la semplicità?
 
Alcuni sbufferanno tediati; i più diranno ok, facendo spallucce; altri cominceranno a vedere le cose in maniera diversa. Voi non sentitevi sbagliati in nessuno dei tre casi: in questo trittico siamo sommariamente rappresentati più o meno tutti; certo, mancano le sfumature, che sono utili ma, se le aggiungiamo, poi come e chi le gestisce? Non siete già stanchi?
Ecco ripartiamo da qui, dalla comprensione di noi, questo ingarbugliato insieme di sfumature e differenze, che chiamiamo umanità, variegata come tutti gli ambiti che ci riguardano, compreso quello della pizza e del gelato: siamo tanti, non tutti perfettamente rappresentati e descritti. Ma esiste almeno una cosa che ci rende, fortunatamente e drammaticamente, tutti non uguali ma simili. Ed è lì che dobbiamo cercare il nostro lato comune, preparandoci che esso potrebbe anche non piacerci affatto o addirittura sconvolgere le nostre abitudini e le nostre certezze.
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A questo punto vi aspetterete delle risposte, invece che altre domande e altri dubbi. E invece non troverete nulla di pronto e confezionato, nemmeno di semilavorato: tutto è aperto e da fare. Date il vostro contributo umano, metteteci un’idea, un desiderio, un tassello, indipendentemente che siate chi fa o chi consuma. Come vorreste che fosse il vostro cibo di domani, quello con cui nutrite e vi nutrite? Di cosa avete bisogno per definirlo cibo? Quanto dovrebbe costare? Come dovremmo produrlo? E quanto? Che sia pane, pizza, gelato o melanzana, cosa dovrebbe essere perché venga riconosciuto come tale?
 
Nessuna risposta, solo domande, perché come mi ha scritto, in privato, una sovversiva professionista del gelato: “Non sappiamo se sia nato prima il gelato o il gelatiere, se dobbiamo difenderci da qualcuno o da qualcosa o preferiamo rifugiarci nella suprema divisione tra buoni e cattivi. Io sogno un mondo in cui non sono io l’unica gelatiera di cui valga la pena mangiare il gelato, ma dove l’eccellenza perda la sua caratteristica di esclusività elitaria. Un mondo in cui ogni gelatiere fa del proprio meglio. Un mondo in cui se hai fatto poca strada, c’è sempre tempo per migliorare! Io propongo di cambiare strada. Non voglio che tu mi segua, proviamo a camminare uno a fianco all’altro, perché non ci sia il primo ad arrivare, perché se siamo affianco possiamo pure tenerci per mano, fare cordone, supportarci, sentirci una squadra.”
 
Un’ultima domanda: non trovate che questo pensiero possa essere applicato a tutti i comparti gastronomici e infine umani?
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di Anna Marlena Buscemi

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