Frutta e Pizza napoletana: blasfemia o nuova tradizione?

Questo articolo potrebbe risolversi in una semplice risposta alla domanda provocazione contenuta nel titolo – e qui ognuno potrebbe quindi dare la risposta che preferisce che, se si limitasse semplicemente ad una questione di gusto, consentirebbe di chiudere la discussione con due schieramenti contrapposti, i contrari ed i favorevoli – oppure cercare di fornire gli strumenti per capire come non solo qualsiasi riduzione semplicistica (il pensiero va ovviamente alla pizza con l’ananas) sia inutile ma anche come la ricerca gastronomica, se condotta con intelligenza e non per provocare o stupire, sia ciò che consente alla cucina di evolversi e a noi di crescere.
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In uno svolgimento circolare, eccoci partire da un punto di inizio e ritornare allo stesso punto come finale: un paradosso, se non fosse che il personaggio che ci consente di compiere questa circolarità è uno dei più divisivi del mondo della pizza, Gino Sorbillo. È il 2017 quando Sorbillo, dopo una serata dedicata alla pizza con l’ananas, sembra chiudere definitivamente la questione con un giudizio che è una vera e propria sentenza.
 
Passa qualche anno, il mondo della pizza attraversa evoluzioni considerevoli, quello dei social media ne vede di ancora maggiori e si arriva al 2023, anno in cui lo stesso Sorbillo propone l’ananas sulla pizza: lo fa passando il frutto al forno e mettendolo su una pizza bianca. Come avrebbe detto Frederick Frankenstein-Gene Wilder in quel capolavoro della storia del cinema che è “Frankenstein junior”: “Si può fare!”, al netto di passi indietro e polemiche.
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Abbiamo considerato una manciata di anni, nella storia della pizza con l’ananas: in realtà, le origini risalgono al 1962, anno considerato da tutti quello in cui nasce la “pizza hawaiana” (questo il nome della pizza con ananas e prosciutto).

Ne è ritenuto inventore il canadese di origini greche Sotirios “Sam” Panopoulos, che lavorava presso il ristorante “The Satellite” di Chatham-Kent in Ontario: secondo alcuni, l’ispirazione sarebbe derivata non tanto dalla cucina delle Hawaii, quanto piuttosto dagli accostamenti tra frutta e prosciutto, caratteristici della cucina dell’est, mentre secondo altri le origini sarebbe ricollegabili al toast Hawaii, che prevedeva una combinazione tra formaggio, prosciutto, ananas e ciliegie sotto spirito. Da allora, semplicemente, la pizza con l’ananas ha rappresentato una linea di discrimine: si ama o si odia, escludendo qualsiasi compromesso. In Italia, pare che un problema di gradimento non si ponga neppure se non fosse per qualche curioso, sperimentatore, visionario o semplicemente innovatore.
 
Ecco, allora, che le prime crepe al muro di intransigenza cominciano a comparire: se si esclude Gabriele Bonci, che nel 2011 fa assaggiare ad Anthony Bourdain (siamo all’interno dello show culinario dello chef americano) la sua versione della pizza all’ananas (con prosciutto), è a Franco Pepe (Pepe in Grani, Caiazzo) che dobbiamo guardare.
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Nel 2019 la sua Ananascosta è il risultato di un’analisi raffinatissima, firmata da uno dei più intelligenti interpreti della pizza contemporanea.
In un cono fritto, ecco ananas fresco (e non in barattolo, come nella versione originale del 1962) avvolto nel prosciutto crudo San Daniele, con una fonduta di Grana Padano DOP e una spolverata di liquirizia: niente pomodoro (per ridurre l’acidità), Grana Padano e San Daniele a dare sapidità, la freschezza dell’ananas in grado di bilanciare la frittura. Un’esecuzione che è già storia. Ci allontaniamo solo per un momento dalla geografia campana, ma ci torneremo. Se seguiamo la scia dell’ananas, eccoci nel 2019, con Renato Bosco: il “pizzaricercatore” propone il suo doppio crunch con prosciutto cotto, ananas alla senape, fior di latte e ricotta.
 
Nel capoluogo lombardo, invece è Simone Lombardi di “Crosta” a realizzare nello stesso anno una pizza con ventricina abruzzese, ananas cotto in forno e cipollotti in uscita. Esempi che dimostrano come siano ricerca e apertura gli ingredienti da cui partire, prima ancora che tutti gli altri.
 
Ma allora vale la pena sottolineare che non di solo ananas vive il mondo della sperimentazione della frutta sulla pizza. Altra grande protagonista assoluta è la mela Annurca, seguita dall’albicocca.
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Ed ecco che torniamo in Campania: Francesco Martucci, nella sua “I Masanielli” di Caserta ha proposto appunto la “Annurca”: qui il frutto è ridotto in purea, dopo essere stato infuso con la vaniglia, accostato a guanciale croccante di suino grigio-ardesia, fior di latte e, all’uscita, Conciato romano.
 
A giocare con le consistenze è poi Luca Brancaccio, che nella sua pizzeria di Caserta ha creato una pizza composta da base bianca con fior di latte, lonzarda di maiale nero casertano e mela Annurca in purea, disidratata e fresca tagliata a fette sottilissime. A chiudere, confettura di pomodorino del Piennolo Dop e Conciato Romano grattugiato che, con il suo gran carattere, pare abbinarsi perfettamente alla mela. A dialogare ancora con il territorio con l’obiettivo di valorizzare i prodotti locali è di nuovo Franco Pepe che nel 2017 firma la Crisommola, una pizza dedicata all’albicocca del Vesuvio. Un prodotto locale, di cui si contano una quarantina di varietà (pellecchiella, vitillo, vollese, boccuccia, prevetarella, ceccona, palummella): tra tutte, la scelta di Pepe cade sulla vitillo, proposta in confettura su pizza fritta, con l’acidità del frutto a bilanciare e a sgrassare. Ancora le albicocche: si chiama “Pizza Tatin Vesuvio” la proposta di Aniello Falanga della Pizzeria Haccademia a Terzigno. Qui ecco la pellecchiella, che viene riletta in chiave francese con il riferimento alla nota tarte tatin francese. Le albicocche sono cotte in padella con burro e zucchero per meno di 10 minuti, poste alla base di una teglia e ricoperte con il panetto di impasto, sigillando la cornice con le mani. Una spolverata di zucchero e quindi la cottura, al termine della quale la pizza viene capovolta, completandola con scaglie di cioccolato fondente e noci. I modi per valorizzare frutta e pizza, insomma non mancano: la chiave è l’atteggiamento con cui ci si accosta ai due elementi, dimostrando di saperli valorizzare dialogando con il territorio.
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di Caterina Vianello

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