IL PIZZATORE: ERRICO PORZIO

Storie di pizza

Errico Porzio, originario di Soccavo, un quartiere di Napoli, è un pizzaiolo del popolo che non ama definirsi imprenditore, pur contando innumerevoli attività e avendo un numero incredibile di dipendenti.
È divenuto famoso grazie alla sua pizza ma anche ai social, tramite i quali cerca di strappare un sorriso con un’incredibile spontaneità e anche di trasmettere importanti valori. Nonostante la sua fama, infatti, non perde occasione per aiutare chi ne ha necessità, attua una politica di inclusione, condivisione e solidarietà, tratta gli impiegati come una famiglia e non esita a mettersi al loro pari, spinto da una incredibile passione e da una grande umiltà. Citando Errico: #SaddaSapèFa!
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Errico, raccontami come inizia la tua storia.
Mio zio è uno storico pizzaiolo di Napoli – Mario Pellone – e aveva una pizzeria nella quale lavorava mio padre come responsabile di sala. Nei giorni in cui non andavo a scuola o nei periodi festivi, andavo lì: avevo 12-13 anni. Ovviamente ero affascinato dal lavoro di mio zio, non da quello di mio padre che nel frattempo faceva doppio mestiere ed era anche dipendente di un’azienda. Guardare mio zio con le mani nella farina, che impastava e stendeva, mi prendeva sempre di più. Grazie a questo, ho intrapreso poi la mia strada. Ho iniziato come un po’ tutti a quell’età. Le prime pizze che fai sono quelle che poi mangi tu. Avevo circa 13 anni e ricordo che mio zio mi diceva: “Uaglio’ t’a vuo’ fa’ tu a pizza? Ricordati ca chella che fai è chella ca esce d’o furno e chella te magne” (“Vuoi fartela tu la pizza? Ricorda che ciò che fai e che esce dal forno quello mangerai”). Nel senso: “se la bruci, la mangi lo stesso”. Quindi, dopo alcuni giorni di digiuno, al terzo/quarto tentativo sono riuscito a mangiare la pizza. Ho fatto tutta la famosa gavetta dal forno al banco, tutto in modo molto precoce, perché poi mio zio era anche vecchia scuola, uno di quelli che ti bastonava e, all’epoca, non capivo nemmeno il perché. Con il tempo ho capito tutto quello che faceva e che le nozioni che mi dava erano importantissime: se oggi sono quello che sono, in parte è anche merito suo.
 
La prima pizzeria che hai aperto?
Dopo essere andato via dalla pizzeria di mio zio, ho iniziato a lavorare da “Reginella” a Posillipo, per crescere e fare nuove esperienze. Passati circa tre anni e mezzo, un amico pizzaiolo mi disse che la pizzeria in cui lavorava, nel mio quartiere di nascita, a Soccavo, era in vendita. Era il 2000, se non erro, quando decisi di prenderla. All’inizio non lasciai il mio lavoro da “Reginella”, facevo entrambe le cose. Era una pizzeria d’asporto di circa 25-30mq, inizialmente un po’ sbandata, non aveva grossi risultati ma faceva quel minimo indispensabile. Io ero convinto che con impegno e lavoro ce l’avrei fatta e quindi, dopo i primi mesi in cui mi “sdoppiavo”, lavorando anche 18 ore al giorno, passata l’ultima estate a Posillipo per racimolare qualcosina in più, decisi di lasciare e dedicarmi in toto alla mia pizzeria. Da quel momento, con il massimo impegno anche di tutta la famiglia, il locale arrivò dal fare 30-40 pizze al giorno a 200, senza contare il sabato.
 
La salita è stata faticosa ma la vista è stata meravigliosa…
Ho avuto anche momenti difficili in cui ho pensato di mollare. Ero un ragazzo, ma lavorando 18 ore al giorno la stanchezza si faceva comunque sentire, le ore pesavano. Però la voglia di cambiare vita e avere qualcosa di proprio prevalse. La pizzeria d’asporto, poi, nel 2012 iniziò a stancarmi un po’ e, spinto anche da clienti e amici che mi dicevano, “p’a pizza che fai ce vo’ na sala” ossia “mangiarla qua è un’altra cosa”, decisi di investire. Liquidammo il meccanico che lavorava alla bottega di fianco alla mia e allargammo il locale. La pizzeria divenne un po’ più grande, con circa 50 posti a sedere tra dentro e fuori. L’escalation è iniziata da lì. Quella sede non bastava più, quindi ci allargammo con una terza pizzeria sulla stessa strada. Due per tavoli e una d’asporto. ragazzo che si sentiva poco bene di andare a casa e mi sono messo io a lavorare insieme ai ragazzi, perché mi sento ancora uno di loro. Molti mi chiedono come faccia a trovare personale in un momento in cui non si trova e io dico sempre: “bisogna capire che il posto di lavoro è quello in cui si passano più ore”. Bisogna viverlo come un ambiente familiare. Sabato sera sono andato a fare un panino al pub a fianco e ho fatto una ventina di panini anche per i ragazzi. Quelli che ancora non mi conoscono, in quanto Nola è aperta da poco, sono rimasti stupiti e chi mi conosce gli rispondeva: “ma nun ‘o ssaje ca Errico accussi’ è fatto?” (“non sai che Errico è fatto così?”). Questo mi fa capire pure che in altri ambienti lavorativi questi ragazzi vengono trattati diversamente, in un rapporto dipendenteproprietario che a me non piace proprio.
 
Come quando hai sostituito il ragazzo lavapiatti?
Quel giorno avevo un’intervista con un professore di un’università americana, arrivai un po’ prima e, siccome ogni volta che vado in un locale, passo in ogni reparto a salutare i ragazzi, vidi nel vano lavaggi questo ragazzo di colore che parlava da solo. Io gli dissi: “ma che è successo?”; e lui: “no capo, l’altro ragazzo è andato via, lui ha la febbre e io sto da solo”, lui mi chiama così, “capo”. Era nel pieno del lavoro, così gli dissi: “aspetta un attimo, stai tranquillo e rasserenati”, mi cambiai e iniziai ad aiutarlo. Nel tempo di 15 minuti, lui stesso mi mandò via dicendomi che era tutto a posto e che stava bene; spinto dal mio gesto, si riprese. Ecco, sono convinto che a volte basti una pacca sulla spalla. Diventò poi virale perché il mio social media manager mandò la foto sullo storico gruppo di Soccavo, dove ci punzecchiamo sempre, scrivendo: “Guardate, o masto vuosto che fine ha fatto” (“guardate il capo che fine ha fatto”).
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Mi pare tu abbia partecipato anche a un progetto con il carcere di Secondigliano, giusto?
Si. Abbiamo fatto proprio un campionato. Abbiamo anche nei nostri locali tanti ragazzi con particolarità – parlo al plurale perché non è che faccio tutto da solo, c’è uno staff – e quindi siamo molto orientati verso questa politica inclusiva.
 
Parlami dell’iniziativa “Cca’ se magna e nun se pava”
Entriamo in un piano sentimentale delicato. Andrea, che non era solo la mia spalla nei video ma anche nella vita, veniva ovunque insieme a me. Aveva questa cosa che quando andavamo a fare gli eventi, per fare l’apertura e attirare gente, diceva sempre “venite, cca se magna e nun se pava!” (“venite, che qui si mangia e non si paga”). È una frase resa celebre da Sophia Loren ne “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica.
Io scherzosamente mi arrabbiavo. Dopo la sua scomparsa, ho avuto l’idea di intitolargli una sala del locale sul lungomare e lì di donare, in suo onore, alcune ore a categorie particolari che non possono permettersi una pizza, figuriamoci poi una pizza sul lungomare. È una cosa bellissima, perché ogni mese diamo tra i 300 e i 500 pasti, insieme all’Onlus “Angeli di Strada” Villanova, molto legata anche all’Associazione ARCA, insieme a case-famiglia e il giro si sta allargando. Molti dicono che non si può fare beneficenza e farlo vedere ma non è vero. Non si può fare in anonimato. I nostri video, gli appelli, gli eventi, servono proprio a lanciare dei messaggi e dire: “guardate qua, la gente è assai, dateci una mano”. Non basta Errico Porzio, ci vogliono tanti Errico Porzio. È per questo che rendiamo pubblico ciò che facciamo.
 
D’altronde “s’adda sapè fa”! (ridiamo) Parlando di pizza, come fai a mantenere ovunque la stessa qualità?
Riguardo “PorzioNI di pizza”, il format della pizza in teglia, abbiamo un laboratorio di 500 mq dal quale parte tutto. I punti vendita, tranne tre, sono in franchising e questo è nato proprio perché riusciamo a garantire, grazie al laboratorio, la standardizzazione del prodotto. Dagli impasti, ai sughi, alle creme e alle fritture, forniamo tutto. Ovviamente, i punti affiliati fanno formazione per cottura, modalità di accoglienza, per il modo in cui servire un prodotto. Per la pizzeria dico sempre – anche se molti non ci credono e non so perché – che le attuali 13, che diventeranno 20 in questo 2024, sono tutte a gestione diretta, nessun franchising.
Non riuscirei altrimenti a garantire la stessa qualità e servizio di “PorzioNi di pizza”, perché ovviamente la pizza napoletana è un prodotto fatto al momento. Non si può mandare un impasto precotto nelle varie sedi. Quindi, lavoriamo molto sulla formazione. Abbiamo una scuola a Pozzuoli, dove i ragazzi tengono corsi per 4-5 mesi e, alla fine, fanno un esame per avere la qualifica. Quelli più bravi e vogliosi li prendiamo e smistiamo nelle nostre pizzerie. I locali sono poi raggruppati in triadi e, per ogni triade, ci sono: manager, supervisore, direttore di sala, responsabile dei pizzaioli e di cucina. Non è che Errico può saltare da un locale all’altro, altrimenti andrei al manicomio. Bisogna avere l’intelligenza di delegare e formare persone valide. I giovani hanno tanta voglia di lavorare e quelli più bravi vanno premiati. Ti basti pensare che i nostri manager sono partiti come semplici camerieri. Noi non prendiamo persone da fuori ma diamo possibilità di crescita e premiamo chi sta all’interno. Basta lavorare bene e seguire una certa linea. Questo ovviamente vale anche per sala e cucina.
 
Sembra che tu vada controcorrente rispetto al pensiero comune.
Alla gente che non trova personale dico sempre che bisogna cambiare mentalità. A differenza dei miei tempi, che sapevo quando entravo e non quando uscivo, oggi nei miei locali facciamo turni, diamo possibilità di far festa in maniera alternata anche il sabato e la domenica, di lavorare la mattina, oltre a una buona paga e alla possibilità di crescere. Sono elementi che ci gratificano ma che ci aiutano pure a trovare personale. Abbiamo addirittura personale in esubero e ogni giorno ricevo decine di richieste di lavoro. Dico solo che dipende molto dalla mentalità, ecco, in questo caso dell’imprenditore. Se ritieni di voler fare la pizzeria come si faceva vent’anni fa, non vai da nessuna parte.
 
So che ti definisci un tradizionalista moderno…
Parto da una radice storica tradizionale ma con il tempo ho modificato il mio stile di pizza con idratazioni un po’ più spinte, pur restando sempre in linea con una stesura classica, un cornicione “annunciato” e non pronunciato e con lievitazioni un po’ più lunghe. Poi la mia cottura è, come dico sempre, lenta, docile e mai aggressiva. Non a 480°C, ma a 400°C.
 
Cos’è per te la pizza? Proponimene una che ami particolarmente.
La pizza è una delle poche cose che unisce. La religione, il calcio, la politica dividono ma io riesco a tenere allo stesso tavolo uno juventino e un napoletano, uno di destra e uno di sinistra, un cattolico e un musulmano. È qualcosa di incredibilmente unificante, che dà unione al mondo. La pizza che ti propongo è la Montanara. Oggi i pizzaioli più evoluti parlano tutti di doppia cottura, ma noi abbiamo sempre detto “prima fritta e poi al forno”. Fa assaporare tutti i sapori: il pomodoro di qualità, perché la cottura in forno è breve, la mozzarella di bufala, la grattugiata di pecorino o di Cacioricotta, l’olio extravergine messo alla fine, il croccante con il morbido. È sicuramente una delle mie preferite.
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di Noemi Caracciolo

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