L'insalata sulla pizza: saper andare oltre la banalità

A guardare indietro nei secoli, spulciando tra i ricettari e opere tematiche, che fanno parte della storia della gastronomia, cercando notizie sull’insalata, si scoprono dei riferimenti interessanti e curiosi. Per esempio, in un volume del 1614 firmato dal modenese Giacomo Castelvetro, dal titolo “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano” si apprende come già nel ‘600 si riconoscesse agli italiani un grande consumo di verdure, superiore all’epoca rispetto a quello di carni. Nel 1627, Salvatore Massonio medico aquilano dà alle stampa “Archidipno, ovvero dell’insalata, e dell’uso di essa”, volume dedicato non solo alla nomenclatura delle varie insalate ma anche al loro uso, ai condimenti e alle loro dosi. La storia, insomma, dimostra come già nei secoli passati fosse evidente uno degli aspetti più originali e distintivi della gastronomia italiana: l’uso di verdure e insalate.
Se oggi il termine insalata fa riferimento ad un’imprescindibile componente vegetale, in passato non è sempre stato così. Nel lessico volgare del basso medioevo il termine veniva usato come aggettivo per definire materie prime sottoposte a salagione (carne, pesce). A partire dal XIV secolo il termine diventa da aggettivo a sostantivo e indica preparazioni fredde di verdure e carni, condite con olio, aceto, sale e pepe. È ancora il sale – uno degli ingredienti e non quello principale - quindi, a prevalere nella definizione. Quella che noi oggi chiamiamo insalata, invece era per i romani l’acetaria, da aceto, usato nel condimento. Oggi sale e aceto, i condimenti, sono passati in secondo piano e sono le verdure ad essere al centro della scena: varietà di cicoria, indivia, rucola, scarola... Se l’universo delle insalate è pressoché infinito, il campo tuttavia si restringe se guardiamo al loro utilizzo in pizzeria: la cottura e le temperature sono infatti degli elementi discriminanti nell’uso delle insalate sulla pizza. Chi ne riconosce infatti il valore gastronomico e non le utilizzi per mero godimento estetico o come guarnizione per dare un tocco di colore al resto del condimento, sa anche che – a meno di alcune eccezioni – aggiungerle in cottura equivale ad una loro mortificazione. Preferibile quindi aggiungerle una volta che la pizza è uscita dal forno.
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La memoria collettiva, quando si parla di insalata sulla pizza, corre immediatamente all’onnipresente rucola, che fino a qualche anno fa furoreggiava in abbinamento a bresaola e scaglie di grana o a ciliegini e mozzarella di bufala. Qualche esperimento più creativo si spingeva ad utilizzare ingredienti tipici del territorio, valorizzando la geografia. Così, se al Nordest il radicchio di Treviso – in genere precedentemente cotto – veniva aggiunto agli ingredienti, in Campania, rileggendo la tradizione dei rustici della tradizione napoletana, era la scarola ad essere utilizzata. Per fortuna, così come si è assistito ad una ricerca nel campo delle farine e dei grani usati per gli impasti, ci si è progressivamente smarcati da condimenti vegetali banali e si è compiuto uno sforzo anche in ambito delle “insalate”.
Se la rucola rimane ancora in lista, così come il radicchio di Treviso (su quest’ultimo si propongono cotture che sappiano giocare anche sulle consistenze) interessanti proposte si sono affacciate all’orizzonte. È il caso del radicchio Variegato di Castelfranco, noto anche come la “rosa che si mangia”, per via della forma. Incrocio tra Radicchio di Treviso e scarola, ha foglie croccanti e sottili, leggermente arricciate e striature su tutta la superficie, con colori che vanno dal rosso al viola chiaro. Il sapore è leggermente, con un fondo amarognolo. In questo caso, la cottura ne spegnerebbe la croccantezza: meglio quindi aggiungerlo a fine cottura, meglio se accostato a formaggi molli e delicati, per non coprirne il sapore. 
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Più amaro ma ugualmente interessante, specie se abbinato a frutta secca è il radicchio di Verona: le foglie sono ovali ed allungate e formano un cespo compatto. Il loro colore è rosso scuro intenso e la nervatura principale è bianca. Anche in questo caso si può ripassare in padella prima e aggiungerlo alla pizza in cottura o metterlo fuori dal forno. Lo stesso vale per il radicchio Rosso di Chioggia: tondeggiante e compatto, con foglie rosse dalle nervature bianche, è coltivato su un terreno sabbioso ed ha un gusto sapido. In Friuli, non si può fare a meno di assaggiare la Rosa di Gorizia, presidio Slow Food. Veniva coltivata come nicchia e solo negli orti cittadini e nelle zone agricole alla periferia della città: oggi per fortuna il territorio di produzione si è ampliato. Le foglie diventano un vero gioiello con i primi freddi, che donano un colore inconfondibile, che va dal verde intenso, al melanzana, al rosso, accentuati con la lavorazione. Una volta raccolta, infatti, la rosa viene composta in mazzi e lasciata in ambienti riparati, tiepidi e al buio per circa due settimane, a 10°-15°. Questa tecnica, simile all’imbianchimento a cui è sottoposto il radicchio di Treviso (che rimane a bagno in acqua di risorgiva a 13°), consente di avere colori ancora più accesi, consistenza croccante e sapore più deciso. 
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Delicata e croccante, con colori tenui ed una dolcezza inconfondibile è l’indivia belga, che dev’essere valorizzata con attenzione agli accostamenti, affinché il sapore non sia coperto da gusti troppo intensi. Uscendo dai terreni più conosciuti e “confortevoli”, c’è infine un mondo vegetale che può riservare grandi sorprese e notevoli soddisfazioni gustative per quanto riguarda gli abbinamenti e le farciture sulla pizza: è quello della famiglia delle senapi. Se la si conosce più come pianta spontanea che come coltivata e più per i semi – dai quali si ricava la salsa - le varietà “addomesticate” di senape sono sempre più frequenti e disponibili. La ristorazione fine dining se n’è già accorta da tempo, aggiungendo le foglie all’interno di misticanze lontane dalla banalità o arricchendo primi e secondi piatti. 
La senape, che appartiene alla famiglia delle Brassicacee o Crucifere, si riconosce per il sapore pungente e piccante, di cui sono responsabili i composti solforosi presenti in diversa misura, esattamente come nei ravanelli, nella rucola e nel rafano. 
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Oltre a quella selvatica, quelle presenti in natura sono la senape bianca (Sinapis alba), la senape nera (Brassica nigra), e la senape bruna (Brassica juncea). In genere, l’uso che si fa della pianta è appunto quello che vede l’impiego dei semi o come sovescio. Ci sono tuttavia alcune varietà coltivate, adatte alla ristorazione e che potrebbero essere decisamente adatte ai condimenti vegetali per le pizze. È il caso della Red Giant, dalle foglie grandi circa 30 cm, di colore rosso, spesse e robuste. È una varietà brillante e piccante, originaria del Giappone e si riconosce per il gusto audace, con sentori di aglio crudo. Della stessa famiglia è la Mizuna, di origine orientale caratterizzata da una foglia dai margini frastagliati, di colore verde brillante: il gusto è più sottile e delicato. 
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Più speziata è la Scarlet Frills, con foglie di colore rosso intenso e frastagliate: più sottili rispetto alle altre varietà, fanno al pari con steli altrettanto fini, perfetti per essere aggiunti a crudo. Si chiama Green Wave ed è una senape dal gusto speziato: le foglie sono verdi, lanceolate con un’arricciatura sul bordo. Anche questa è perfetta come condimento a crudo. Dalle bellissime foglie viola dentellate è la Ruby Streaks, una varietà dal sapore piccante, con una nota leggermente dolce che ne smussa il sapore forte. Per chi ama i gusti più miti c’è la Southern Giant, dalle foglie verdi, brillanti e con un’arricciatura finale. Ancora, la Violet Wave, dalle foglie simili ad un dipinto impressionista. Vagamente violacea, con riflessi blu e verdi, hanno un gusto bello pieno e con un tocco di piccante. Infine la Carolina Broadleaf, dalle foglie lunghe, larghe e dal verde pieno, particolarmente gustosa. 
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Di Caterina Vianello

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