C’è una bella discussione in atto: le ricette che hanno un nome definito - es. “Carpaccio” (quello di Giuseppe Cipriani, per citare una ricetta moderna), o “Spongata”, antico dolce tradizionale di Sarzana; o il “Pasticcio di pesce gatto”, tradizionale nella cucina del Polesine; o la “Suppa di pizzoni o pollastri”, di Cristoforo di Messisbugo, scalco nella prima metà del ‘500 dei duchi di Ferrara - vanno realizzate come è indicato nei ricettari storici (dagli autori stessi o da chi per primo codificò la ricetta) oppure possono essere liberamente interpretate da chi le realizza sia in casa che nei ristoranti?
L’argomento invita a riflettere, dal momento, ad esempio, che il “Carpaccio” di Giuseppe Cipriani (proposto per la prima volta nel 1963 all’Harry’s Bar di Venezia), è piatto d’autore debitamente codificato, realizzato con carne di sotto letto di bovino con sopra della salsa universale della casa (maionese arricchita da worcestershiresauce con l’aggiunta di gocce di latte, il tutto ben amalgamato) e ancora lo si fa così nel celebre locale veneziano.
Eppure con lo stesso nome “Carpaccio”, oggi sono indicate un’infinità di preparazioni, pesce e frutta compresi, tagliate a fette sottili, naturalmente crude (a volte anche marinate o un po’ cotte), irrorate di una qualche salsa o di liquore.
È corretto? Nella lingua italiana, che è in continua evoluzione, l’uso pian piano determina la regola, per cui nessuno (quasi) discute più sulla liceità di chiamare “Carpaccio”, una fettina di ananas messa bagno con gocce d’acqua speziata e accompagnata da un gelato alla cannella o irrorata da un liquore in armonia. Come dire che a un certo punto ciascuno fa come meglio gli piace e gli dà il nome che più gli aggrada.
In questo caso c’è, diciamolo pure a voce alta, molta confusione e incultura, ma resta vero che se viene servito in un ristorante il “Carpaccio originale”, deve essere esclusivamente quello immortalato nel 1963 (in occasione di una mostra a Venezia delle opere di Vittore Carpaccio) da Giuseppe Cipriani nel suo locale di Calle Valleresso a Venezia, servendo la contessa veneziana Amalia Nani Mocenigo.
Ci è poi utile ricordare un altro piatto storico, prima citato, la “Suppa di pizzoni o pollastri”, che Cristoforo di Messisbugo faceva preparare nelle cucine del castello per i duchi. Quel piatto non esiste più a Ferrara e nel Ferrarese, ma ha trovato nuova vita in terra trevigiana, dove a Treviso si prepara tradizionalmente nei mesi invernali la “Suppa di pizzoni”, (zuppa di piccioni) ora chiamata “Sòpa coàda” (zuppa covata) mentre a Motta di Livenza, negli stessi mesi, si prepara la “Suppa di pollastri”, anche lì chiamata “Sòpa coàda.
Fra la citata preparazione d’autore – Il Messisbugo scrisse la ricetta che fu pubblicata in un volume nel 1549, un anno dopo la sua morte – e le interpretazioni moderne ci sono per necessità delle differenze.
Innanzi tutto nel preparare la sua Suppa (era fatta a strati), iniziava da una base di pane raffermo, quindi uno strato di carne, uno di formaggio vecchio grattugiato, cospargendo il tutto di zucchero e cannella, poi ancora pane, carne, formaggio, zucchero e cannella, coprendo di pane e versando sul tutto dell’ottimo brodo.
Oggi non si accetterebbe più l’abbondanza dello zucchero e della cannella che rendevano il piatto dolce e molto speziato, per cui nel corso del tempo sono stati aboliti. Poi non ci sono più le pentole e le cucine di quel tempo, per cui, mutando le situazioni, chi realizzava il piatto, usando sempre pane raffermo, carne di pollo o di piccione, formaggio grana grattugiato e ottimo brodo, ha cercato di avvicinarsi il più possibile, nella forma e nella sostanza alla ricetta originale.
Come si vede, anche le ricette più antiche possono essere realizzate, ma adeguandole ai gusti che cambiano, senza tradirne le caratteristiche di fondo.
Tempo fa, a proposito di un piatto storico del centro Italia, gli “Spaghetti alla Carbonara” è sorta una polemica sull’impiego della cipolla nel piatto. Anna Gosetti, nel suo notissimo “Le ricette regionali italiane” (prima edizione 1967), dà i seguenti ingredienti: spaghetti, guanciale, uova intere, parmigiano grattugiato, pecorino grattugiato, strutto (o olio d’oliva o burro), aglio, sale e pepe nero.
Con molta chiarezza, nel sottotitolo del volume si precisa che le ricette sono state “interpretate da Anna Gosetti della Salda”, dal momento che il piatto è di antica tradizione orale e non ha un certificato di nascita, come invece ce l’hanno il “Carpaccio” e la “Suppa di pizzoni o pollastri”; poi, sotto la ricetta, c’è la nota seguente: “Si chiama «alla carbonara» perché costituiva il piatto base dei boscaioli che si recavano nell’Appennino a far carbone di legna; essi cucinavano delle «penne», non degli spaghetti, forse perché nel rimescolamento la pasta si amalgamava meglio al condimento. Lo strutto viene oggi sostituito con burro o con olio d’oliva”.
Ha scritto a tal proposito, in maniera chiaramente provocatoria, Massimo Montanari (in “AA.VV., Il Pregiudizio universale, Laterza, 2016): “Guanciale sì, pancetta no. Pecorino sì, parmigiano no. Olio sì, panna no. Il tuorlo sì, l’albume no.”
Anna Gosetti ci dà una prima intelligente risposta: nel proporre le ricette tradizionali italiane, lei le ha “interpretate” con il suo buon gusto e la sua maestria e sembra invitare i suoi lettori a fare altrettanto. Ed è lei stessa a dirci che i romani hanno messo da parte le “penne” del piatto dei boscaioli sostituendole con gli spaghetti e aggiunge che, secondo lei, si può impiegare l’olio d’oliva o il burro al posto dello strutto. E questo perché la cucina
si evolve secondo i gusti, anche le mode, tanto è vero, come suggerisce Montanari, che è possibile sostituire il guanciale con la pancetta, il pecorino col parmigiano, l’aglio con la cipolla, aggiungendo infine, se piace, anche la panna.
Naturalmente Montanari ha espresso un suo parere di storico, per dirci che “nessuna ricetta è immobile e immutabile, fino a che qualcuno non la codifica. Ma a quel punto avrà una firma, un autore che pretende di avere interpretato l’autentico dichiarando «falso» quanto non si adegua alle sue scelte. Operazione di dubbia legittimità. Perché in quel modo la ricetta si fossilizza, esce dalla storia per entrare nella teologia. La storia è il luogo della vita e del cambiamento. Ciò che non vive e non cambia non le appartiene.”
Tutta questa storia, con gli esempi che abbiamo riportato, ha un senso se risulta utile ai cuochi d’oggi. Ebbene, nel far cucina, quando si ripropone una ricetta storica la cosa migliore è restarne il più vicino possibile (Anna Gosetti, con la sua autorità, ne ha codificate diverse centinaia; Cristoforo di Messisbugo e Giuseppe Cipriani le loro ricette le hanno firmate e pubblicate), ben sapendo che il buon gusto e la creatività non vanno mai escluse, perché, è proprio vero, la cucina è come la vita e l’accompagna, e la vita non è immobile, non è un oggetto fossile, ma si evolve di continuo come si evolve la storia degli uomini e come si evolvono i gusti e le esigenze nutritive.
Con un’avvertenza; purché i piatti storici interpretati siano non solo buoni, ma migliori di quelli originali. Solo così ha senso modificarli.