Sì, è chiaro a tutti che si tratta di tipologie diverse ma queste sono tutte accomunate dal fatto che da qualche anno è diventato di moda offrire in pizzeria, oltre alla pizza classica, napoletana o comunque cotta al mattone, anche un “padellino” che profuma ugualmente di storia e cultura. La cosa in sé non è di certo sorprendente, se si pensa che, per la stragrande maggioranza degli Italiani, il primo approccio con la pizza è proprio con questa tipologia. Diventa però particolarmente rilevante questo ingresso in pizzeria se ci voltiamo indietro e ci accorgiamo che, nel primo decennio del XXI secolo, questa tecnica era praticamente a rischio d’estinzione.
UN PO’ DI STORIA
La pizza al padellino viene definita da più parti come un’invenzione torinese, diversificazione di un prodotto dalla storia millenaria come la farinata, un impasto di farina di ceci cotto in un tegame e, solo in tempi recenti, arricchito da qualche condimento. Leggenda narra che i venditori di farina-ta e i pizzaioli più intraprendenti (questi ultimi forse emigrati dal sud dell’Italia, soprattutto - si dice - da Calabria e Sardegna), per offrire alla propria clientela un’alternativa per il pranzo durante la pausa dal lavoro in fabbrica, avessero deciso - negli anni ’20 del Novecento - di proporre una pizza da cuocere in un tegame (il forno in cui si cuoceva la farinata aveva temperature troppo alte per la pizza al mattone e ne avrebbe bruciato il fondo), piccola, composta e soprattutto prelavorata che riducesse di molto i tempi d’attesa. Sarebbe questo il motivo del suo successo e, per estensione, del declino a cui si è assistito dagli anni ’90 del Novecento, quando è stata sdoganata la “schiscetta” anche per gli impiegati e i dirigenti di un’azienda, interessati ad assecondare senza interruzioni un preciso regime dietetico. A far tornare in auge il tegamino sono stati però quei pizzaioli più giovani che, dalla seconda decade del nostro secolo, hanno deciso di dare nuova vita e dignità a un prodotto ritenuto di scarsa qualità.