Vincenzo Capuano: la nuvola di Napoli

Storie di pizza

“La pizza veste lo spazio di colori e profumi. E quando arriva in tavola si innamora il mondo”. Fabrizio Caramagna.
 
E Vincenzo Capuano fa innamorare il mondo a tavola e sui social da diverso tempo.
 
Credo tutti lo conosciamo per i suoi video e le creazioni talvolta un po’ bizzarre (impossibile negarlo) ma anche per Nonno Enzo e, soprattutto, per le inconfondibili forbici d’oro che, oramai, sembrano essere un’estensione del suo corpo.
Dopo aver aperto ben 18 sedi della sua “grande pizzeria” – sì, “grande pizzeria” e non “catena”, perché Vincenzo rifiuta categoricamente questo appellativo – (ri) approda a Napoli con la diciannovesima. Precisamente, a Piazza Trieste e Trento, a due passi da Piazza del Plebiscito, simbolo di Napoli e proprio davanti allo storico Gran Caffè Gambrinus. Pur girando continuamente, il suo cuore resta sempre fermo lì, dove tutto è cominciato: a casa sua.

L’ultimo locale, la cui apertura risale allo scorso gennaio, si presenta su due livelli e con quattro affacci principali, ognuno su uno storico luogo della città: Piazza del Plebiscito, la fontana del Carciofo, il Teatro San Carlo e il Palazzo Reale. Scorci bellissimi e suggestivi ma, d’altra parte: quale scorcio di Napoli non lo è? Direi dunque che Vincenzo ha fatto bingo, se consideriamo anche il fatto che il marciapiede su cui si trova è uno dei più trafficati di Napoli, tra turisti, eventi e persone dedite allo shopping. Probabilmente i quasi 100 posti a sedere non saranno neppure abbastanza. Lo stile è lineare e minimale, elegante nella sua essenzialità: spiccano il rosso, il blu e le immancabili stampe che vedono protagonista alle pareti Diego Armando Maradona.
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Vincenzo è un artista della pizza contemporanea (di cui è campione mondiale) ma non per questo disdegna la tradizione, anzi! Insieme a lui, è spesso presente il simpatico Nonno Enzo, papà della sua mamma e da cui l’eredità di famiglia è partita. «Ho insegnato a tutti i miei figli e nipoti, adesso ho 77 anni di vita e 64 di pizze. Ho imparato da mia nonna che aveva una pizzeria in tempo di guerra, a Napoli, a Porta Capuana», mi racconta Nonno Enzo, il quale fa la classica pizza “a rot e carrett” (a ruota di carro) ma con l’impasto di suo nipote. Così, gli ho chiesto cosa pensasse di queste “novità” e lui mi ha risposto: «io penso che Vincenzo ha fatto bene, la sua è una bellissima pizza e non si può restare sempre ‘e tiempe ‘e Pappacone” (*spiegazione alla fine dell’articolo); la mia pizza a ruota di carro è sempre buona, l’impasto è diverso ma la stesura resta la mia».
E, in effetti, è proprio così che funziona da Capuano (sicuramente è così nella nuova sede di Piazza Trieste e Trento), è possibile degustare le sue contemporanee realizzate con farina Nuvola di Mulino Caputo, come la Federella con pestato di friarielli e pancetta iberica di Bellota; la Melanzanella con crema di pomodorino giallo, melanzane e stracciata e tre pizze a ruota di carro nei gusti: Margherita, Marinara e Provola, pepe e limone (la mia preferita in assoluto).

È vero che quella di Vincenzo è un’eredità di famiglia ma, essendo curiosa di sapere se avesse pensato di fare altro prima di intraprendere il percorso di pizzaiolo, gli ho chiesto di raccontarmi i suoi inizi e, con mia grande sorpresa, ho scoperto che in realtà ha studiato per diventare un perito informatico.
In effetti, nonostante abbia poi fatto una scelta diversa, è rimasto un appassionato e infatti è lui stesso a gestire tutte le sue pagine di comunicazione (impresa non facile, considerati i numeri che fa): «Ho iniziato a fare la pizza a 10 anni; erano pizzaioli mio padre e mio nonno, sembrava quasi un obbligo (ride), ma sì, ho studiato informatica. Però avevo due sogni: girare il mondo e far conoscere Napoli. Ho pensato che la pizza fosse il mezzo migliore. Ho scelto la strada più difficile ma è quella che immaginavo mi avrebbe dato più soddisfazione e, alla fine, è stato così», mi racconta Vincenzo. Innegabile che di soddisfazioni ne ha avute.
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Cosa provi oggi, cosa si prova dopo tutte queste aperture?
Ogni apertura spaventa sempre. Non è facile mantenere i ritmi alti ma per me la leva più importante è il popolo napoletano, oltre ovviamente i turisti. Il 75% di loro passa per questo marciapiede. Aprire qui, proprio qui, è un’altra cosa», dice riferendosi alla nuova pizzeria, «tutti i locali sono come miei figli ma questo fa un altro effetto, considerando solo i luoghi storici sui quali affaccia ogni porta di questa pizzeria. Vincenzo definisce tradizione, contemporaneità e internazionalità i principi base su cui verte la sua filosofia, gli “ingredienti principali” del suo essere ciò che è, per così dire. Sulle note di “internazionalità”, gli ho chiesto di raccontarmi le sue esperienze a partire dal periodo in cui ha imparato a impastare: «Sono partito da Scampia ma, volendo girare il mondo, un giorno presi lo scollino e dissi al nonno: “me ne vado”. Sono stato in più di 30 Paesi. Ho aperto la mia prima pizzeria a Napoli a 30 anni e nel menu c’erano tutte pizze il cui nome richiamava un’esperienza da me vissuta, per esempio “Ritorno a Napoli”. Ecco, per noi quest’ultima apertura non è un punto di arrivo ma di partenza. Napoli è l’olimpo della pizza e noi vogliamo rappresentare il “made in Naples” nel mondo. Il progetto del momento è di aprire un locale in ogni capitale europea. Io definisco i locali che portano il mio nome “una grande pizzeria”. Facciamo formazione in primis, che è fondamentale e tutto parte proprio da qui, da casa mia, sempre. Ho portato all’estero ciò che ho appreso a Napoli. Però restiamo democratici. Non ci definiamo né popolari né commerciali, semplicemente facciamo un prodotto di qualità basandoci sulla formazione. A Milano, per esempio, lo scontrino medio è di 25 euro».
 

Sì, ma come sei arrivato al tuo impasto?
Non ho fatto come mio nonno che mi diceva: “tocca con mano, senti il caldo, questo e quello”. No, ho codificato la pizza, ho codificato il mio impasto attraverso la tecnica, il termometro, la statistica. Poi sono molto aperto sui topping e alla sperimentazione. A Sorrento abbiamo una pizza che è base provola, fonduta a limone, cialde di parmigiano e zeste di limone, che, insieme alla provola e pepe, è tra le mie preferite. E tutti sappiamo quanto sia aperto alla sperimentazione, a volte un po’ “stravagante” se vogliamo, tanto da suscitare commenti e pensieri decisamente sfavorevoli. Il simbolo di famiglia però resta la provola, pepe e limone che io ho avuto il piacere di assaggiare: diametro 36cm, super sottile e cotta leggermente in più rispetto alla contemporanea. Cambia un po’ di gusto e consistenza ma è veramente buona. Un giusto equilibrio tra l’innovazione, attraverso l’impasto di Vincenzo e la tradizione, grazie alla stesura di Nonno Enzo.
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Da dove prendi così tanta immaginazione per le tue creazioni?
Sono un pizzaiolo storyteller. Vivo e spero di morire a Napoli ma giro, viaggio tanto e cerco di raccontare tutto ciò. Un’apertura la facciamo solo se può raccontare qualcosa, altrimenti no. La pizza contemporanea si può trasmettere, è condivisibile. I miei ragazzi partono sempre da Napoli, si formano qui, è il punto di partenza di tutto ciò che facciamo, sempre.
Quindi come ti definiresti?
uno scugnizzo contemporaneo, che è partito da zero, ha realizzato i suoi sogni e spera di essere un esempio per chi vuole credere nell’artigianato e nel territorio. Vengo da Scampia, quando questo quartiere era in un periodo difficile; oggi è migliorata, ma all’epoca rappresentarla al meglio era la mia missione. Oltre a dare tanto, perché so cosa significa non avere niente. Ho scelto di puntare sempre sulla mia città, poter dare altri posti di lavoro a Napoli è importante. Lei mi ha dato e mi ha tolto, io le ho dato e mi ha ridato tanto. Personalmente – prima di questa apertura – avevo già assaggiato la pizza di CapVin e mi era già piaciuta ma non avevo avuto l’occasione di incontrare Vincenzo (e Nonno Enzo), di apprezzarne quindi i “retroscena”.
È vero, al primo assaggio avevo percepito la passione che c’è dietro, ma non l’amore forte e il desiderio di vedere un sorriso sul volto di chi mangia, sensazioni che ho sentito nel momento in cui hanno iniziato a “raccontarsi” e a “raccontarmi” ciò che quella sera stavo mangiando.
 

*A ‘e tiempe ‘e Pappacone - Ai tempi di Pappagone .
Contrariamente a quanto si crede, non è stato Gaetano Pappagone a dare origine al famoso detto napoletano ma andiamo per gradi: “A ‘e tiempe ‘e Pappacone” è una locuzione napoletana la cui origine probabilmente è legata alla storpiatura del nome “Pappacoda”, ovvero un’antica nobile famiglia napoletana le cui prime tracce a Napoli risalgono al XIII secolo, durante il regno degli Angioini. “Pappacone” è probabilmente il risultato della conosciutissima scherzosità del popolo napoletano, il cui linguaggio è risaputo essere spesso ironico. Ma chi è questo “Pappacone”? Si suole collegarlo al succitato Gaetano Pappagone, un personaggio interpretato da Peppino De Filippo (un grande comico e attore napoletano), inventato negli anni ‘60 nel programma televisivo “Scala reale”. Gaetano era un aiutante del Commendator De Filippo e divenne l’autoironico alter ego di Peppino. Come i napoletani più anziani ricorderanno, era un gran combinaguai, allegro, ingenuo, strano e ricco di bontà d’animo. Pappagone – passato dal “Carosello” ai fumetti – era considerato quasi una maschera al pari di Pulcinella e Arlecchino. A‘e tiempe ‘e Pappacone è un’espressione napoletana che si usa dunque per indicare un qualcosa che risale a un tempo lontano, a un tempo “antico” appunto.
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di Noemi Caracciolo

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