Roma, città della pizza

«Un giorno, un industriale Napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni culinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava; il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse: poi, andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana». Sono le parole con cui Matilde Serao nel suo capolavoro “Il ventre di Napoli” descrive la pizza e il fatto che tale prodotto non potesse avere speranze fuori dai vicoli del capoluogo partenopeo. Siamo a fine Ottocento e, in quel tempo, la pizza per Napoli è ancora un cibo che - come dice l’autrice greca, naturalizzata italiana: «rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo di moltissima parte del popolo napoletano». Parliamo però di una pizza diversa a quella a cui siamo abituati oggi, un prodotto preparato durante la notte e poi venduto negli angoli delle strade più povere della città, con il rischio di vedere queste fette di pizza che «si gelano al freddo, che s’ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche».
Eppure, già in quel tempo, una speranza di un futuro migliore la pizza ce l’aveva perché, accanto a queste fette di pizza da un soldo, vi erano anche delle fette da due centesimi, destinate alla colazione dei bambini che andavano a scuola, ovvero di fatto le famiglie più agiate della città. Ce ne vorrà però di tempo per vedere la pizza conqui- stare la Capitale. Settant’anni dopo la Serao, infatti, Ancel Keys, il padre della Dieta Mediterranea racconterà la sua “disavventura”: ai tavoli di una tipica osteria romana avrà infatti l’ardire di chiedere una pizza ma si sentirà rispondere dal cameriere: «Pizza? Sono cose da napoletani». Probabilmente quel cameriere non sapeva che la prima volta in cui la parola pizza fa la comparsa sul suolo italico era stata in realtà a Gaeta, nel Lazio, nel 997 ed era il compenso per il contratto di affitto di un mulino situato nel territorio dell’attuale Comune di Castelforte e tale termine ricorre ancora nei documenti della Curia Romana del 1300, dove si parla di “pizis” e “pissas” riferendosi ad alcuni tipici prodotti da forno in Abruzzo e Molise. Né poteva immaginare che 50 anni dopo il “Pizza Hero” per eccellenza sarebbe stato il romanissimo Gabriele Bonci. Ma andiamo con ordine. La risposta di quel cameriere era dovuta quasi certamente allo scetticismo con cui Roma guardava alle nuove pizzerie che proprio in quegli anni iniziavano a fare la loro comparsa: locali che definire spartani è dir poco e che vendevano birra e vino sfuso. Ne parla, non a caso, Pierpaolo Pasolini nel romanzo “Una vita violenta” riferendosi alla pizzeria Ai Marmi, operante dal 1952.
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Contestualmente, nella seconda metà degli anni ’50 diversi fornai romani decisero di diversificare la propria attività proponendo pizza al taglio. Per far sì che “non invecchiasse” al banco, correndo il rischio del pizzaiolo narrato dalla Serao, si aggiungevano strutto e olio all’impasto del pane. Successivamente, si puntò invece su una idratazione più spinta. A dire il vero, la pizza “del fornaro” è una tradizione documentata nella Capitale sin dalla prima metà dell’Ottocento: in Campo de’ Fiori pare infatti che il forno - attivo ancora in tempi recenti - sfornasse già pizza bianca e pizza rossa. A dare una svolta è tuttavia Marco Roscioli che nel 1972 rileva un forno il cui impianto originario risale al 1824 e cuoce la propria pizza a una temeperatura di circa 360 gradi per qualche minuto, asciugandola e facendola diventare “scrocchiarella”.
Tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento si diffondono poi le pizze in teglia in quasi tutti i quartieri della Capitale. Inizialmente, la pizza in teglia lievita non più di 5 o 6 ore ed è un prodotto ricco di grassi ma nel 1987 un giovane pizzaiolo aprirà una pizzeria in cui sperimenterà un impasto molto più idratato, a lunga lievitazione e che vede impiegato l’olio di oliva al posto dello strutto: si tratta di Angelo Iezzi, ormai pilastro della storia della pizza contemporanea. È in questo filone di rinnovamento che troviamo anche un altro nome, forse meno noto di Iezzi ma altrettanto importante: Franco Palermo. Franco fu tra i primi - se non il primo - a Roma a fare il pane con farine biologiche, trasmettendo i suoi insegnamenti con generosità a quanti volessero “imparare un mestiere”. Ed è lo stesso stile che mette da quarant’anni nelle sue pizze da banco. Il suo mantra è: “Lievita, lì è vita”. Oggi opera in Pizzeria di Quartiere, portando in tavola un prodotto che ha un’identità diversa dalle principali scuole, una pizza con lunga lievitazione da farine italiane e biologiche macinate a pietra e cotte nel forno a legna.
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Tra i tanti allievi di Palermo c’è Gabriele Bonci che da lui ha appreso la passione per le farine bio, gli impasti “in purezza” come quello di farro e soprattutto le lunghe lievitazioni che conferiscono leggerezza al prodotto. Dal 2003 Bonci con il suo Pizzarium è un’istituzione, non solo per Roma. Qualche anno prima di Bonci, però, un altro grande protagonista dello storytelling “pizzoso” aveva fatto il suo approdo nella Capitale: Giancarlo Casa aprì infatti La Gatta mangiona nel 1999. Sin dall’inizio, Giancarlo e Cecilia Capitani si dedicarono allo studio di un impasto “di qualità” sperimentando diversi gradi di maturazione e ricercando materie prime ben diverse da quelle proposte nelle pizzerie fino a qualche anno prima. Attirarono così subito l’attenzione dei giornali e poco dopo delle guide e ciò, insieme al passaparola positivo dei primi clienti, portò rapidamente ad un buon successo del locale e a un auspicabile spirito di emulazione.
Solo sei anni dopo, nel 2005, il gigante buono Stefano Callegari darà vita a Sforno, puntando sul forno a legna e sulla pizza col cornicione che presenta sempre qualche bruciatura perché a lui piace “ben cotta”. Di lì, in poi, è un fiorire di grandi nomi: dalla Fucina di Edoardo Papa agli Illuminati di Pierdaniele Seu, al sofisticato Qvinto di Ivano Veccia. Discorso a parte merita invece Jacopo Mercuro, laureato in giurisprudenza, che, sebbene sia il più giovane tra quelli citati, ha operato una vera e propria rivoluzione, decidendo di non investire sulla pizza napoletana ma ridare dignità alla pizza romana. È il 2018 quando apre a Centocelle “180 grammi”, dichiarando sin dall’insegna il peso del suo panetto e la sua vocazione. Tre anni dopo, il locale apre una nuova sede in via Gernazzano per soddisfare le numerose richieste e oggi il suo è un prodotto vincente, grazie alla qualità assoluta dei prodotti e anche alla grande verve comunicativa dell’ex avvocato. In definitiva Roma, nella sua multiculturalità, ci insegna che la pizza non è democratica ma autocratica perché è esperienza diretta del mondo alimentare in cui essa nasce e si sviluppa. È un simbolo universale in cui ciascuno si riconosce nella pluralità di significati. 
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di A. P.

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