Roma, città della pizza
«Un giorno, un industriale Napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni culinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava; il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse: poi, andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana». Sono le parole con cui Matilde Serao nel suo capolavoro “Il ventre di Napoli” descrive la pizza e il fatto che tale prodotto non potesse avere speranze fuori dai vicoli del capoluogo partenopeo. Siamo a fine Ottocento e, in quel tempo, la pizza per Napoli è ancora un cibo che - come dice l’autrice greca, naturalizzata italiana: «rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo di moltissima parte del popolo napoletano». Parliamo però di una pizza diversa a quella a cui siamo abituati oggi, un prodotto preparato durante la notte e poi venduto negli angoli delle strade più povere della città, con il rischio di vedere queste fette di pizza che «si gelano al freddo, che s’ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche».