Quanto è importante il territorio per la formazione di uno chef o di un pizzaiolo?
Secondo me qualsiasi tipo di pizzaiolo deve prima sapere valorizzare il suo territorio per sapere esprimersi nel mondo.
Cosa ha di diverso la tua pizza rispetto alle altre?
Questo me lo deve dire un cliente oppure tu, non io. Io faccio la mia pizza.
Caiazzo ha un bellissimo borgo ma era sconosciuto prima di te: come sei riuscito nell’impresa di far arrivare “il mondo a Caiazzo”?
Amo il mio territorio, quello dove sono nato e sapevo che aveva una grande potenzialità. Ho deciso così di metterlo sulla mia pizza. Era un momento importante per la pizza, perché stava per diventare “ostaggio” della comunicazione degli imprenditori: oggi ci sono pizzerie ovunque aperte da uomini d’azienda nelle grandi città, che non fanno i pizzaioli: non c’è più amore per il proprio territorio. I miei tanti “no”, invece, sono serviti a portare la gente a Caiazzo.
Quanto contano le classifiche per la determinazione del successo? Sono i pizzaioli ad aver bisogno dei critici o è più vero il contrario?
Dipende sempre chi mi valuta! Valutare è importantissimo ma difficile. Da me vengono blogger, giornalisti, anche quelli che non sanno riconoscere un prodotto dall’altro ma la classifica più importante è la fila nel vicolo. In Italia, il mondo della pizza si è evoluto velocemente ma rimane la scarsa formazione del pizzaiolo: io ho studiato la materia prima e cercato di sviluppare attorno a questa degli abbinamenti. Quanti critici però sanno valutare la pizza e quanti pizzaioli sanno fare una buona pizza? Ci sono miliardi di pizze: è da capire chi ti valuta e chi sa fare. Oggi bisogna sapersi trasformare, bisogna saper fare una pizza buona ma anche sana: io lavoro in team con una nutrizionista, con l’università, c’è uno step in più rispetto al passato, quindi - sottolineo ancora - bisogna capire chi può davvero giudicare.
Sei partito con il rivoluzionare il mondo della pizza ideando la “valigia del territorio”, hai poi aperto un b&b, sei stato nominato Cavaliere della Repubblica: come vedi il tuo futuro?
Il mio futuro lo vedo nella consegna di quei miei saperi, dei miei valori; io mi sento appagato del percorso che ho fatto e mi sento appagato perché ho trasmesso il sapere ai miei figli e a 50 ragazzi nella mia pizzeria. Nel futuro vedo quindi un cambio di generazioni. Io ho sempre rifiutato di entrare nelle scuole di formazione, non posso formare tutti per la pizza di Franco Pepe, però vorrei essere formatore per quei ragazzi proveniente da luoghi dove non c’è futuro.
La tua pizza preferita?
Non è la mia, è quella di mio padre: il calzone con la scarola riccia. La presentai anche io, quando lavoravo ancora nella pizzeria di mio padre, a Luigi Veronelli che venne lì e che fu il primo a scrivere su di me. Scrisse tre pagine. Volle abbinare a quel calzone un vino del territorio. Scrisse con una semplicità tale che mi diede lo stimolo a progredire e a fare ricerca. Però la pizza di mio padre resta ancora migliore della mia.